Lettera di
Scalfaro
24/11/2004 11:03
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Il testo
della lettera del Presidente Scalfaro con la quale ha accolto la richiesta di
assumere la presidenza del Coordinamento nazionale di Salviamo la Costituzione.
Grazie, Cari amici, per l’onore grande che mi fate offrendomi la
presidenza del coordinamento di tutte le forze politiche, sociali, di tutti i
movimenti, di tutti i cittadini che si ribellano all’attuale capovolgimento
della nostra Carta Costituzionale.
Dopo aver difeso, come mio dovere, la Costituzione durante il
mio settennato, ho subito ripreso a girare l’Italia per rispondere ai tanti
inviti, specie di giovani, per questa difesa che sento di dover compiere come
impegno sacro anche per rispetto delle gloriose lotte e delle immani sofferenze
che sono fondamento e vita di questa Carta preziosa.
Accolgo volentieri il vostro unanime invito, ben conoscendo le
difficoltà che
abbiamo dinnanzi; ma la fede nella libertà e l’entusiasmo per
difenderla nei
valori fondamentali della nostra Costituzione non vengono meno.
Con l’aiuto di Dio, metterò ogni impegno per continuare con voi
questa pacifica, ma intransigente battaglia per la nostra Italia, per il nostro
popolo.
Oscar Luigi Scalfaro
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I vostri commenti |
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06/03/2005
12:11 |
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06/03/2005
12:08 |
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08/03/2005
18:07 |
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21/03/2005
15:43 |
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06/03/2005
21:05 |
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14/04/2005
19:02 |
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06/03/2005
12:21 |
25 Aprile di Piero Calamandrei
06/03/2005 12:11
di Ospite
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NON RAMMARICATEVI
DAI VOSTRI CIMITERI DI MONTAGNA
SE GIU’ AL PIANO
NELL’ AULA DOVE FU GIURATA LA COSTITUZIONE
MURATA COL VOSTRO SANGUE
SONO TORNATI
DA REMOTE CALIGINI
I FANTASMI DELLA VERGOGNA
TROPPO PRESTO LI AVEVAMO DIMENTICATI
E’ BENE CHE SIANO ESPOSTI
IN VISTA SU QUESTO PALCO
PERCHE’ TUTTO IL POPOLO
RICONOSCA I LORO VOLTI
E SI RICORDI
CHE TUTTO QUESTO FU VERO
CHIEDERANNO LA PAROLA
AVREMO TANTO DA IMPARARE
MANGANELLI PUGNALI PATIBOLI
VENT’ANNI DI RAPINE DUE ANNI DI CARNEFICINE
I BRIGANTI SUGLI SCANNI I GIUSTI ALLA TORTURA
TRIESTE VENDUTA AL TEDESCO
L’ ITALIA RIDOTTA UN ROGO
QUESTO SI CHIAMA GOVERNARE
PER FAR GRANDE LA PATRIA
APPRENDEREMO DA FONTE DIRETTA
LA STORIA VISTA DALLA PARTE DEI CARNEFICI
PARLERANNO I DIPLOMATICI DELL’ ASSE
I FIERI MINISTRI DI SALO’
APRIRANNO
I LORO ARCHIVI SEGRETI
DI OGNI IMPICCATO SAPREMO LA SEPOLTURA
DI OGNI INCENDIO SI RITROVERA’ IL PROTOCOLLO
CIVITELLA SANT’ANNA BOVES MARZABOTTO
TUTTE IN REGOLA
SAPREMO FINALMENTE
QUANTO COSTO’ L’ ASSASSINIO
DI CARLO E NELLO ROSSELLI
MA FORSE A QUESTO PUNTO
PREFERIRANNO RINUNCIARE ALLA PAROLA
PECCATO
QUESTI GRANDI UOMINI DI STATO
AVREBBERO TANTO DA RACCONTARE
giugno 1953
Un pensiero di Piero Calamandrei
06/03/2005 12:08
di Ospite
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« In questa Costituzione c'è dentro tutta la nostra storia, il
nostro passato; tutti i nostri dolori, le nostre sciagure, le nostre glorie
sono tutti sfociati qui in questi articoli »
Piero Calamandrei
Riforma della Costituzione prima
delle elezioni
08/03/2005 18:07
di Anonymous User
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Riforma della Costituzione prima delle elezioni Nota di Palazzo
Chigi dopo colloquio Berlusconi-Calderoli
(ANSA) - ROMA, 8 MAR -"E' ferma intenzione della Cdl di far
approvare, in prima lettura al Senato, la riforma della Costituzione prima
delle elezioni regionali". Lo annuncia una nota di palazzo Chigi dopo un
incontro tra lo stesso Berlusconi, il ministro Calderoli e il ministro Maroni. Il motivo della permanenza della Lega al
Governo sono le riforme in assenza delle quali - ha detto Calderoli - viene
meno la presenza della Lega nel governo e il motivo per restarci.
21 Marzo 2005 - il Senato voterà la
nuova Costituzione il mercoledì santo, un articolodi Raniero La Valle
21/03/2005 15:43
di Ospite
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L'OBIETTIVO
di Raniero La Valle (Liberazione , 20/03/05)
Mancato l'obiettivo che era stato fissato per l'8 marzo il
Senato voterà la nuova Costituzione mercoledì prossimo, che una volta si
chiamava mercoledì santo. Ciò facendo il Senato voterà non solo contro
l'ordinamento della Repubblica, per dare vita a un nuovo regime, ma voterà
anche contro se stesso; infatti nel nuovo sistema il Senato non avrà più alcuna
funzione politica di controllo del governo del Paese, e perderà anche il suo
ruolo nella formazione delle leggi, tranne di quelle che, attraverso un
complicato gioco di competenze, gli verrebbero ancora date in esame in quanto
interessanti le regioni. Il Senato pertanto, benchè col nuovo nome pretenzioso
di "Senato federale", diverrebbe una "Camera muerta", come
ha detto il sen. D'Amico della Margherita, alludendo al nome irriverente con
cui è chiamata la seconda Camera spagnola.
Forse è per questa riluttanza al suicidio che i senatori hanno
fatto mancare più volte il numero legale, provocando l'ira di Calderoli e
facendo scattare l'ennesimo ricatto della Lega, che vuole a tutti i costi la
riforma prima delle elezioni regionali, e perciò prima di Pasqua. Se dunque
anche questa volta il ricatto funzionerà ("bastano cinque ore e mezzo di
lavoro", ha detto Berlusconi), la nuova Costituzione completerà tra poche
ore la sua prima lettura parlamentare, quella nella quale le storture più
vistose della riforma potevano ancora essere corrette. Dopo il voto del Senato,
o la nuova Costituzione, con la sua seconda parte interamente rifatta, arriverà
fino in fondo in questa forma, o non ci arriverà affatto. Ma quando questo
avverrà dipende esclusivamente dai calcoli elettorali del presidente del
Consiglio (si chiama ancora così) che deciderà se accorciare o allungare i
tempi della seconda lettura parlamentare, da tre mesi ad un anno, unicamente in
base a quelle che ritiene le sue convenienze, come del resto accade per tutto
il resto, truppe in Iraq, tasse, ponte sullo Stretto ecc., che andranno avanti
o indietro a seconda dei sondaggi e dei supposti vantaggi elettorali per il
cavaliere. Così anche la Costituzione della Repubblica è pronta ad essere
scambiata per un piatto di lenticchie; se sarà elettoralmente conveniente, il
trofeo sarà consegnato a Bossi prima dell'estate, così che il referendum
costituzionale si svolgerebbe prima delle elezioni politiche del 2006;
altrimenti i tempi della seconda lettura saranno ritardati, e la Lega
continuerà a minacciare sfracelli.
Questo gioco sui tempi, che agita le acque della maggioranza di
governo, è molto significativo, perchè vuol dire che l'illusione della destra
di un cambio di regime indolore, fatto senza che la gente se ne accorga, senza
rischiare l'impopolarità, sta tramontando. La tattica dell'occultamento, del
silenzio, della dissimulazione del sovvertimento della Repubblica dietro la
maschera della "devolution" e del federalismo, ha funzionato per
mesi, per anni, grazie anche alla complicità, o alla trascuratezza, o alla
incredulità dei giornali, della tv, e della stessa sinistra; ma basta che il
velo si squarci, che la vera natura della riforma si venga a sapere, perchè
l'opinione pubblica si allarmi, chieda di essere informata, si accorga di avere
nella Costituzione un bene che sta per perdere e si prepari a combattere nel
referendum, come possono attestare tutti quelli che in questi giorni girano
l'Italia per difendere la Costituzione, a cominciare dal presidente Scalfaro,
gratificato dal più totale silenzio-stampa. E mentre la gente si sveglia,
l'operazione coperta, clandestina, intrapresa dalla destra si rivela perdente e
indifendibile.
Una clamorosa conferma di ciò si è avuta nelle reazioni furenti
che si sono scatenate contro Prodi quando infine ha denunciato questo
"assalto alle istituzioni" proprio perchè "nessuno possa dire
domani che non sapeva, che non vedeva, che non capiva". La virulenza delle
contumelie rovesciate su Prodi, l'irrisione, la caricatura, la volontà di
screditarlo e delegittimarlo, senza in nessun modo entrare nel merito della sua
critica, da Berlusconi a Fini a Schifani, sono state così esacerbate e adirate
da mostrare che non ce l'avevano con quello che Prodi aveva detto, ma col fatto
che l'avesse detto, cioè che avesse rotto l'omertà, la finzione, l'inganno, e
avesse detto: il re è nudo. Dunque è essenziale che si faccia chiarezza su
quello che è il vero obiettivo della riforma: questo obiettivo è la Repubblica.
Si è creduto o si è fatto finta di credere che la Lega avesse rinunziato al suo
proposito di scardinare lo Stato, passando dal programma secessionista ai più
miti consigli del federalismo. Ma il 12 marzo scorso Bossi ha detto al
"Corriere della Sera": "La devoluzione è la leva per scardinare
il sistema. Fatto il federalismo politico, sarà difficile tornare indietro.
Quando la gente potrà decidere i programmi, reclamerà i soldi per
realizzarli". Il fisco come tessuto connettivo dello Stato moderno;
distrutto il fisco, è distrutto lo Stato. E nella manifestazione leghista di
Verona contro il giudice Papalia, una lapide in marmo celebrava insieme la
morte metaforica del procuratore-capo Guido Papalia, "con la morte della
Repubblica italiana".
Berlusconi invece non vuole dividere la Repubblica, ma
unificarla sotto il proprio potere sovrano. Tale è la riforma che, proprio come
ha detto Prodi, esautora il Presidente della Repubblica, umilia le Camere,
limita il ruolo delle istituzioni di garanzia, espropria le opposizioni
(perfino del voto in Parlamento), instaura la dittatura del primo ministro, e
insomma trasforma la Repubblica parlamentare e rappresentativa nel feudo
inalienabile di un monarca, benchè ancora formalmente elettivo. Sicchè non sarà
nemmeno proponibile il paragone tra la nuova Costituzione e quella del '47 oggi
vigente; il vero confronto dovrà farsi per analogia col precedente della legge
24 dicembre 1925 in cui venne istituito "il governo del re"
esercitato dal "capo del governo, primo ministro, segretario di
Stato", che sanciva la subordinazione del Parlamento al potere esecutivo,
sicchè il capo del governo, primo ministro e segretario di Stato (e Mussolini
aggiunse di suo: duce del fascismo), poteva far di nuovo votare e approvare
senza discussione una proposta di legge rigettata da una Camera; fu quello
l'inizio del regime.
Quando Brecht si chiedeva nel suo dramma come era potuta
avvenire "la resistibile ascesa di Arturo Ui", ecco, era avvenuta
così. E a chi non vuol sentir parlare di regime, basti dire che secondo la
nuova Costituzione i poteri del primo ministro non incontrerebbero limiti
istituzionali; e ciò è tanto vero che un difensore della riforma, il senatore
di Forza Italia Vizzini, intervenendo al Senato ha esortato a non preoccuparsi
per la "deriva bonapartista", perchè in ogni caso a frenare "il
potere governante" interverrebbero "altri fattori di natura
extraistituzionale, quale ad esempio la cultura politica dominante nel
Paese". Questo è dunque l'avversario nei cui confronti vuole affermarsi il
nuovo potere, questo è l'antagonista contro cui la riforma è fatta: "la
cultura politica dominante", cioè la cultura democratica del Paese.
E in effetti è proprio questa che deve salvare la Repubblica.
Anche ricordando che c'è uno specifico divieto costituzionale che rende
radicalmente illegittima la riforma in corso d'opera: è l'art. 139 della
Costituzione, l'ultimo, il quale stabilisce che "la forma repubblicana non
può essere oggetto di revisione costituzionale". Ciò non riguardava i
Savoia, a cui pensava un'altra norma, transitoria e finale, della Costituzione.
Riguardava la forma repubblicana, cioè parlamentare e rappresentativa dello
Stato, che è appunto quella che la riforma demolitrice, il cui obiettivo è la
Repubblica, verrebbe a travolgere.
Il presupposto politico della
Costituzione italiana: l'antifascismo. Un pensiero di Giuseppe Dossetti
06/03/2005 21:05
di Ospite
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" In realtà la costituzione italiana è nata ed è stata
ispirata da un grande fatto globale, cioè i sei anni della seconda guerra
mondiale. (..) Anche il più sprovveduto o il più ideologizzato dei costituenti
non poteva non sentire alle sue spalle l'evento globale della guerra testè
finita. Non poteva, anche che lo avesse cercato di proposito, in ogni modo,
dimenticare le decine di milioni di morti, i mutamenti radicali della mappa del
mondo, la trasformazione quasi totale dei costumi di vita, il tramonto delle
grandi culture europee, l'affermarsi del marxismo in varie regioni del mondo, i
fermenti reali di novità in campo religioso, la necessità impellente della
ricostruzione economica e sociale all'interno e tra le nazioni, l'urgere di una
nuova solidarietà e l'aspirazione al bando della guerra. Quindi l'acuirsi delle
ideologie appena ritrovate e l'asprezza dei contrasti politici fra i partiti
appena rinati, lo stesso nuovo fervore religioso determinato dalla coscienza
resistenziale non potevano non inquadrarsi, in un certo modo, in vasti
orizzonti, al di là di quello puramente paesano, e non poteva non inserirsi
anche in una nuova realtà storica globale a scala mondiale.
Insomma, voglio dire che nel 1946 certi eventi di proporzioni
immani erano ancora troppo presenti alla coscienza esperenziale per non
vincere, almeno in sensibile misura, sulle concezioni di parte e le
esplicitazioni, anche quelle cruente, delle ideologie contrapposte e per non
spingere, in qualche modo, tutti a cercare, in fondo, al di la di ogni
interesse e strategia particolare, un consenso comune, moderato ed equo. Perciò
la Costituzione italiana del 1948, si può ben dire nata da questo crogiolo
ardente ed universale, più che dalle stesse vicende italiane del fascismo e del
postfascismo; più che dal confronto/scontro di tre ideologie datate, essa porta
l'impronta di uno spirito universale e, in un certo modo,
trans-temporale."1
Chi cambia la Costituzione per
sconfiggere l'avversario
14/04/2005 19:02
di Ospite
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Chi cambia la Costituzione per sconfiggere l'avversario
Le costituzioni sono fatte di materia, di pasta specialissima.
Negli ultimi tempi questa materia è andata corrompendosi. Il problema ora, se
non vogliamo il peggio, è, prima di ogni altra cosa, restaurarla.
Invece di ricominciare immediatamente ad azzuffarsi sulle cose
fatte e a rinfacciarsi colpe, cedimenti, opportunismi e contraddizioni: cose
improduttive e meschine che interessano una cerchia sempre più limitata di
persone, sarebbe bene, come si dice pedestremente, fare un passo indietro e
cogliere con uno sguardo d'insieme quel che è appena accaduto.
Vediamo, da una parte, una destra che , osteggiando la
costituzione "vecchia", se ne fa una sua "nuova",
dall'altra una sinistra che, unica cosa chiara, osteggia la costituzione della
destra, per il resto c'è chi, nella sconfitta, invoca la necessità di un
proprio e diverso progetto, chi scrive nuove "bozze" e chi recupera
proposte d'altri tempi, senza che si riesca nemmeno a capire, innanzi tutto,
qual è l'atteggiamento verso la costituzione che abbiamo, quella che viene
dalla Liberazione e dall'Assemblea Costituente del 1947. C'è da stupirsi che,
contro questi geniali capitani, cresca il risentimento?
Indipendentemente dall'essere di destra o di sinistra e
indipendentemente dal giudizio che si dia dell'opera compiuta dal Parlamento e
quindi anche nel caso che, per assurdo, la si giudichi in sé e per sé un
capolavoro costituzionale; indipendentemente da tutto ciò, chiunque, con questo
sguardo d'insieme, non può mancare di vedere la catastrofe costituzionale che
ci sta innanzi.
La materia speciale di cui sono fatte le costituzioni è
l'adesione a qualcosa da costruire in comune. Azione costituente è precisamente
cercare i contenuti di questa adesione e mettterli per iscritto. C'è stata
invece la ricerca consapevole del risultato contrario: la sconfitta
dell'avversario, con un colpo di maggioranza assestato con forza
costituzionale. Qui non c'è la materia; questa non è costituzione, ma lotta
costituzionale.
Una Costituzione imposta così si fa bella della parola, ma si fa
beffe della sostanza. Essa, invece che costituzione, dovrebbe dirsi atto di
governo che si riveste di forma, e quindi di forza, costituzionale. Se
volessimo ritrovare degli antecedenti, potremmo pensare al documento del 1653
di Oliver Cromwell, denominato propriamente non costituzione ma Instrument of
government. Si trattava di organizzare un potere per realizzare la rivoluzione
puritana. I documenti di questo tipo sono atti di forza del governo che
vogliono essere, per così dire, massimamente forzuti o atti, per così dire, di
governissimo.
Si annunciano così altri scontri, non appena (prima o poi) i
rapporti di forza saranno cambiati. Come abbiamo ora una costituzione della
destra, avremo – secondo la legge universale delle azioni e delle reazioni
politiche che Benjamin Constant ha studiato rispetto al succedersi dei colpi
costituzionali in Francia, dopo la Rivoluzione – una costituzione della
sinistra? Si pensa di procedere così? Non c'è costituzione se la sua base di
consenso non trascende le divisioni della politica comune, non trascende cioè,
anzitutto, la divisione maggioranza-opposizione. Una costituzione del governo
non è una costituzione perché non ne ha la legittimità necessaria. Questa
mancanza iniziale si rifletterà sugli atti che saranno compiuti in futuro,
sulla sua base. Invece che pacificare, alimenterà il conflitto. Un bel
risultato «costituzionale», non c'è che dire. Il testo appena approvato al
Senato si è presentato così: Disegno di legge costituzionale presentato dal
presidente del Consiglio dei ministri (Berlusconi), dal Vicepresidente (Fini),
dal ministro per le Riforme Istituzionali e la Devoluzione (Bossi), e dal
ministro per le Politiche Comunitarie (Buttiglione), di concerto col ministro
dell'Interno (Pisanu) e col ministro per gli gli Affari Regionali (La Loggia).
Un piccolo aspetto di forma? No: un'aberrazione di sostanza. Questa
intestazione sarebbe naturale per una legge ordinaria, con la quale il governo,
nel rispetto de quadro costituzionale, attua il suo programma; non lo è per una
costituzione. L'iter parlamentare è stato conseguente. Il Senato ha votato
sotto la minaccia di crisi di governo (e di scioglimento anticipato) perché un
ministro aveva posto una specie di questione di fiducia (vietata dall'art. 32
del testo ora approvato) e il presidente del Consiglio e gli altri l'avevano
accettata, con riguardo addirittura ai tempi dell'approvazione. I senatori
della maggioranza hanno assicurato presenza e voto come richiesto e, ancora una
volta, si sono arresi al ricatto. Bisognerebbe aver assistito ai lavori
dell'aula, per comprendere che cosa può significare prevaricazione del governo
sulla sua maggioranza, insolenza della maggioranza sull'opposizione e gnerale
umiliazione del Parlamento. Gli storici delle istituzioni ricorderanno forse
solo due persone che, sottraendosi alla logica sbagliata dello scontro tra
schieramenti, hanno salvato la dignità costituzionale del Senato: il senatore
Andreotti e il senatore Fisichella. Naturalmente, ciò che precede vuol essere
solo una precisazione concettuale ai fini della comprensione. Chi ha agito
così, sapeva certo cosa stava facendo in quel momento e sarebbe ridicolo fargli
la morale in nome di un concetto (anche se – aggiungo – i concetti e i loro
nomi esigono rispetto). Hanno ragione quanti dicono che non si è trattato di
improvvisazione o leggerezza. Si tratta invece di una concezione e di un
programma. Anche senza arrivare a rievocare torvi precedenti, come
l'identificazione del "politico" con la contraddizione radicale
amico-nemico, è chiaro che qui, alla fine, si è manifestata l'insofferenza, più
volte onestamente dichiarata, verso la mediazione, i compromessi, i controlli:
verso quelli che, in una parola, sono detti impacci e sono invece gli equilibri
della democrazia. Sotto questo aspetto, la presente vicenda costituzionale è un
segno di stanchezza democratica ed è una primizia che prefigura un futuro
politico: un futuro delineato dai poteri davvero assoluti del premier e dai
rapporti di dominazione che egli potrà intrattenere con un Parlamento che, a
differenza di oggi, sarà nelle sue mani non solo de facto, ma anche de jure.
Per chi li ha a disposizione si tratta degli articoli 14 e 16 (formazione delle
leggi), 27 (scioglimento della Camera dei deputati) e 94 (governo in
Parlamento).
Si è detto e si dirà: ma anche la maggioranza di
centro-sinistra, alla fine della scorsa legislatura, si è approvata da sola la
"sua" riforma della Costituzione, la riforma concernente il nuovo
assetto delle regioni e delle autonomie locali. Si tenga comunque conto delle
differenze. Innanzitutto non si è trattato di contraddire la costituzione
precedente ma di sviluppare diversamente e ulteriormente principi preesistenti
(la tutela delle autonomie, nel rispetto dell'unità della Repubblica,
conformemmente all'art. 5 della Costituzione). In secondo luogo, l'allora
opposizione di centro destra dissentiva non perché non volesse quelle
modifiche, ma perché voleva andare oltre. Voleva di più rispett a ciò che era
già qualcosa. Infine, le modifiche di allora sono quasi nulla rispetto alle
attuali, quanto a rilevanza e incertezza per l'avvenire. Invocare questo
precedente per giustificare il presente èdunque una forzatura. Come ha scritto
Galli della Loggia, c'è pur sempre una gerarchia negli errori e, in ogni caso,
se errore fu quello, non si capisce perché lo si sia voluto ripetere,
aggravato. In effetti, fu un errore, determinato anche da ingenui calcoli
politici di breve periodo (chiudere la legislatura con un risultato di spicco;
tagliare l'erba sotto i piedi alla Lega [!], ecc.), che ha causato poi notevoli
problemi pratici di attuazione delle nuove norme, anche in quel caso approvate
in fretta e furia. Onde, fatte le debite proporzioni, quest'accusa di aver
smarrito, anzi di aver corrotto, la materia costituzionale si estende a quella
che era la maggioranza di allora ed è l'opposizione di ora. Del resto, essa si
rese conto dello strappo che si veniva compiendo, del deficit di legittimità
che insidiava la riforma appena approvata. Fu la stessa maggioranza a chiedere
il referendum sul nuovo testo, per trarre da lì quello che in Parlamento era
mancato. E così fu compiuto un altro strappo: il referendum da oppositivo (cioè
da strumento della minoranza) qual è fu trasformato in
confermativo-plebiscitario oppositivo (cioè in strumento della maggioranza)
quale non deve essere. L'effetto plebiscitario non vi fu, dato l'ostica materia
e la bassa partecipazione popolare al voto; ma il precedente pericoloso fu
posto, e oggi c'è chi nell'interesse della maggioranza attuale, pensa di
ripeterlo.
Si tratta ora di fare opera di restauro, in previsione del
referendum. Per questo è inutile, anzi perfino controproducente continuare con
toni via via più accentuati, man mano che si avvicinerà la data del referendum,
il confronto tra le parti politiche che stanno in Parlamento. Più si continua
così, più si prosegue nella distruzione della speciale materia di cui sono
fatte le costituzioni e più si rafforza l'impressione tra i cittadini che, in
fondo, non si tratti che di una delle tante controversie che dividono
maggioranza e opposizione. In materia costituzionale, occorre per l'appunto non
dividere e approfondire le divisioni, ma unire. Il monopolio della discussione
e del confronto detenuto dai soggetti politici avvelenerebbe ulteriormente il
clima e non prometterebbe niente di nuovo. Pochi sono ormai quelli che, da una
parte e dall'altra, sono disposti a vedere nelle parole dei propri avversari
politici qualcosa di più che non la difesa interessata delle proprie posizioni
di potere. C'è certamente dell'ingiustizia in ciò, ma purtroppo sembra essere così
e, se è così, viene per l'appunto a mancare la materia della costituzione.
Questo è invece il momento in cui la vita politica ha bisogno di
un aiuto, di un supplemento di responsabilità che non può che essere dato dalla
società non direttamente implicata politicamente. Il referendum, sempre, è
questo. In particolare lo è il referendum costituzionale. Occorre che i
cittadini che ne hanno la possibilità, come singoli e come organizzazioni
sociali, le associazioni culturali d'ogni tipo, i mezzi di comunicazione, nei
mesi che ci separano dal voto, avvertano che questo è il momento del loro
impegno. Occorre trovare parole nuove, discorsi diversi da quelli uditi mille
volte e sempre meno ascoltati; occorre far comprendere che la posta in gioco
non è il successo o la sconfitta di questa o quella parte politica ma il modo
d'essere del nostro vivere insieme. L'obiettivo prioritario non è ottenere la
bocciatura o l'assoluzione di questa riforma della Costituzione. È la
ricostruzione di un tessuto costituzionale, cioè della materia stessa di cui la
Costituzione è fatta. Il giudizio sulla riforma è secondario e presumibilmente
verrà da sé.
Gustavo Zagrebelsky
LA COSTITUZIONE ITALIANA/
INTERVENTO DI PIERO CALAMANDREI ALL'UMANITARIA, 1955
06/03/2005 12:21
di Ospite
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La Costituzione Italiana: Intervento di Piero Calamandrei
all'Umanitaria di Milano del 26 gennaio 1955
Il 26 gennaio 1955 ad iniziativa di un gruppo di studenti
universitari e medi, fu organizzato a Milano, nel salone degli affreschi della
Società Umanitaria, un ciclo di sette conferenze sulla Costituzione italiana,
inviando insigni cultori del diritto ad illustrare, in modo accessibile a tutti,
i principi morali e giuridici che stanno a fondamenta della nostra vita
sociale.
La parola del maestro indimenticabile suona, ancora oggi, come
un altissimo richiamo all’impegno scientifico e morale di tutti i giovani che
si apprestano ad una sempre rinnovata battaglia di civiltà, di progresso e di
libertà.
Ecco la parte sostanziale di ciò che Egli disse introducendo il
corso e precisando i fondamenti storici della Nostra Costituzione. Il corso è
stato inaugurato e concluso da Piero Calamandrei e, non senza viva commozione,
Egli ritorna tra noi con la sua eloquenza nobile e pur semplice, con dottrina
profonda, scientificamente serena e civilmente incitatrice.
Ass. La Conta ONLUS - Storie e culture delle genti dal mondo
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La Costituzione italiana: difendiamola!
"L’art.34 dice: “i capaci ed i meritevoli, anche se privi
di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi.” E se non
hanno mezzi! Allora nella nostra Costituzione c’è un articolo, che è il più
importante di tutta la Costituzione, il più impegnativo; non impegnativo per
noi che siamo al desinare, ma soprattutto per voi giovani che avete l’avvenire
davanti a voi. Dice così: “E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli,
di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e
l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana
e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica,
economica e sociale del Paese”. E’ compito di rimuovere gli ostacoli che
impediscono il pieno sviluppo della persona umana. Quindi dare lavoro a tutti,
dare una giusta retribuzione a tutti, dare la scuola a tutti, dare a tutti gli
uomini dignità di uomo. Soltanto quando questo sarà raggiunto, si potrà
veramente dire che la formula contenuta nell’articolo primo “L’Italia è una
Repubblica democratica fondata sul lavoro” corrisponderà alla realtà. Perché
fino a che non c’è questa possibilità per ogni uomo di lavorare e di studiare e
di trarre con sicurezza con il proprio lavoro i mezzi per vivere da uomo, non
solo la nostra Repubblica non si potrà chiamare fondata sul lavoro, ma non si
potrà chiamare neanche democratica. Una democrazia in cui non ci sia questa
uguaglianza di fatto, in cui ci sia soltanto una uguaglianza di diritto è una
democrazia puramente formale, non è una democrazia in cui tutti i cittadini
veramente siano messi in grado di concorrere alla vita della Società, di
portare il loro miglior contributo, in cui tutte le forze spirituali di tutti i
cittadini siano messe a contribuire a questo cammino, a questo progresso
continuo di tutta la Società. E allora voi capite da questo che la nostra
Costituzione è in parte una realtà, ma soltanto in parte è una realtà. In parte
è ancora un programma, un ideale, una speranza, un impegno, un lavoro da
compiere. Quanto lavoro avete da compiere! Quanto lavoro vi sta dinnanzi!
E’ stato detto giustamente che le Costituzioni sono delle
polemiche, che negli articoli delle Costituzioni, c’è sempre, anche se
dissimulata dalla formulazione fredda delle disposizioni, una polemica. Questa
polemica di solito è una polemica contro il passato, contro il passato recente,
contro il regime caduto da cui è venuto fuori il nuovo regime. Se voi leggete
la parte della Costituzione che si riferisce ai rapporti civili e politici, ai
diritti di libertà voi sentirete continuamente la polemica contro quella che
era la situazione prima della Repubblica, quando tutte queste libertà, che oggi
sono elencate, riaffermate solennemente, erano sistematicamente disconosciute:
quindi polemica nella parte dei diritti dell’uomo e del cittadino, contro il
passato. Ma c’è una parte della nostra Costituzione che è una polemica contro
il presente, contro la Società presente. Perché quando l’articolo 3 vi dice “E’
compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli, di ordine economico e sociale
che impediscono il pieno sviluppo della persona umana” riconosce, con questo,
che questi ostacoli oggi ci sono, di fatto e che bisogna rimuoverli. Dà un
giudizio, la Costituzione, un giudizio polemico, un giudizio negativo, contro
l’ordinamento sociale attuale, che bisogna modificare, attraverso questo
strumento di legalità, di trasformazione graduale, che la Costituzione ha messo
a disposizione dei cittadini italiani. Ma non è una Costituzione immobile, che
abbia fissato, un punto fermo. E’ una Costituzione che apre le vie verso
l’avvenire, non voglio dire rivoluzionaria, perché rivoluzione nel linguaggio
comune s’intende qualche cosa che sovverte violentemente; ma è una Costituzione
rinnovatrice, progressiva, che mira alla trasformazione di questa Società, in
cui può accadere che, anche quando ci sono le libertà giuridiche e politiche,
siano rese inutili, dalle disuguaglianze economiche e dalla impossibilità, per
molti cittadini, di essere persone e di accorgersi che dentro di loro c’è una
fiamma spirituale che, se fosse sviluppata in un regime di perequazione
economica, potrebbe anch’essa contribuire al progresso della Società. Quindi
polemica contro il presente, in cui viviamo e impegno di fare quanto è in noi
per trasformare questa situazione presente.
Però vedete, la Costituzione non è una macchina che una volta
messa in moto va avanti da sé. La Costituzione è un pezzo di carta, la lascio
cadere e non si muove. Perché si muova bisogna ogni giorno rimetterci dentro il
combustibile. Bisogna metterci dentro l’impegno, lo spirito, la volontà di
mantenere queste promesse, la propria responsabilità; per questo una delle
offese che si fanno alla Costituzione è l’indifferenza alla politica,
indifferentismo, che è, non qui per fortuna, in questo uditorio, ma spesso in
larghi strati, in larghe categorie di giovani, un po’ una malattia dei giovani.
La politica è una brutta cosa. Che me ne importa della politica. E io quando
sento fare questo discorso, mi viene sempre in mente quella vecchia
storiellina, che qualcheduno di voi conoscerà di quei due emigranti, due
contadini che traversavano l’oceano, su un piroscafo traballante. Uno di questi
contadini dormiva nella stiva e l’altro stava sul ponte e si accorgeva che
c’era una gran burrasca, con delle onde altissime e il piroscafo oscillava. E
allora uno di questi contadini, impaurito, domanda a un marinaio “ ma siamo in
pericolo?” e questo dice “secondo me, se continua questo mare, tra mezz’ora il
bastimento affonda.” Allora lui corre nella stiva a svegliare il compagno,
dice: “Beppe, Beppe, Beppe”,….“che c’è!” … “Se continua questo mare, tra
mezz’ora, il bastimento affonda” e quello dice ”che me ne importa, non è mica
mio!” Questo è l’ indifferentismo alla politica.
E’ così bello e così comodo. La libertà c’è, si vive in regime
di libertà, ci sono altre cose da fare che interessarsi di politica. E lo so
anch’io. Il mondo è così bello. E vero! Ci sono tante belle cose da vedere, da
godere oltre che ad occuparsi di politica. E la politica non è una piacevole
cosa. Però, la libertà è come l’aria. Ci si accorge di quanto vale quando
comincia a mancare, quando si sente quel senso di asfissia che gli uomini della
mia generazione hanno sentito per vent’anni, e che io auguro a voi, giovani, di
non sentire mai. E vi auguro, di non trovarvi mai a sentire questo senso di
angoscia, in quanto vi auguro di riuscire a creare voi le condizioni perché
questo senso di angoscia non lo dobbiate provare mai, ricordandovi ogni giorno,
che sulla libertà bisogna vigilare,vigilare, dando il proprio contributo alla
vita politica.
La Costituzione, vedete, è l’affermazione scritta in questi
articoli, che dal punto di vista letterario non sono belli, ma l’affermazione
solenne della solidarietà sociale, della solidarietà umana, della sorte comune,
che se va affondo, va affondo per tutti questo bastimento. E’ la Carta della
propria libertà. La Carta per ciascuno di noi della propria dignità d’uomo. Io
mi ricordo le prime elezioni, dopo la caduta del fascismo, il 6 giugno del
1946; questo popolo che da venticinque anni non aveva goduto delle libertà
civili e politiche, la prima volta che andò a votare, dopo un periodo di
orrori, di caos: la guerra civile, le lotte, le guerre, gli incendi, andò a
votare. Io ricordo, io ero a Firenze, lo stesso è capitato qui. Queste file di
gente disciplinata davanti alle sezioni. Disciplinata e lieta. Perché avevano
la sensazione di aver ritrovato la propria dignità, questo dare il voto, questo
portare la propria opinione per contribuire a creare, questa opinione della
comunità, questo essere padroni di noi, del proprio paese, della nostra patria,
della nostra terra; disporre noi delle nostre sorti, delle sorti del nostro
paese. Quindi voi giovani alla Costituzione dovete dare il vostro spirito, la
vostra gioventù, farla vivere, sentirla come cosa vostra, metterci dentro il
senso civico, la coscienza civica, rendersi conto, questo è uno delle gioie
della vita, rendersi conto che ognuno di noi, nel mondo, non è solo! Che siamo
in più, che siamo parte di un tutto, tutto nei limiti dell’Italia e nel mondo.
Ora vedete, io ho poco altro da dirvi, in questa Costituzione di
cui sentirete fare il commento nelle prossime conferenze, c’è dentro tutta la
nostra storia, tutto il nostro passato, tutti i nostri dolori, le nostre
sciagure, le nostre glorie: son tutti sfociati qui negli articoli. E a sapere
intendere dietro questi articoli, ci si sentono delle voci lontane.
Quando io leggo: nell’articolo 2 “L’adempimento dei doveri
inderogabili di solidarietà, politica, economica e sociale” o quando leggo
nell’articolo 11 “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla
libertà di altri popoli”, “la patria italiana in mezzo alle altre patrie” ma
questo è Mazzini!Questa è la voce di Mazzini. O quando io leggo nell’articolo
8: “Tutte le confessioni religiose, sono ugualmente libere davanti alla legge”
ma questo è Cavour! O quando io leggo nell’articolo 5 ”La Repubblica, una ed
indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali” ma questo è Cattaneo! O
quando nell’articolo 52 io leggo, a proposito delle forze armate “L’ordinamento
delle forze armate si informa allo spirito democratico della Repubblica”,
l’esercito di popolo, e questo è Garibaldi! O quando leggo all’art. 27 “Non è
ammessa la pena di morte” ma questo, o studenti milanesi, è Beccaria!!
Grandi voci lontane, grandi nomi lontani. Ma ci sono anche umili
nomi, voci recenti. Quanto sangue, quanto dolore per arrivare a questa
Costituzione!! Dietro ogni articolo di questa Costituzione o giovani, voi
dovete vedere giovani come voi, caduti combattendo, fucilati, impiccati,
torturati, morti di fame nei campi di concentramento, morti in Russia, morti in
Africa, morti per le strade di Milano, per le strade di Firenze, che hanno dato
la vita perché la libertà e la giustizia potessero essere scritte su questa
Carta. Quindi quando vi ho detto che questa è una Carta morta: no, non è una
Carta morta. Questo è un testamento, un testamento di centomila morti.
Se voi volete andare in pellegrinaggio, nel luogo dove è nata la
nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle
carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati, dovunque è
morto un italiano, per riscattare la libertà e la dignità: andate lì, o
giovani, col pensiero, perché li è nata la nostra Costituzione."
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Chi cambia la Costituzione per
sconfiggere l'avversario GUSTAVO ZAGREBELSKY la Repubblica - 29 marzo 2005 Le Costituzioni sono fatte di
materia, di pasta specialissima. Negli ultimi tempi questa materia è andata
corrompendosi. Il problema ora, se non vogliamo il peggio, è, prima d´ogni
altra cosa, restaurarla. Invece di ricominciare immediatamente
ad azzuffarsi sulle cose fatte e a rinfacciarsi colpe, cedimenti,
opportunismi e contraddizioni: cose improduttive e meschine che interessano
una cerchia sempre più limitata di persone, sarebbe forse bene, come si dice
pedestremente, fare un passo indietro e cercare di cogliere con uno sguardo
d´insieme quel che è appena accaduto. Vediamo, da una parte, una destra che,
osteggiando la costituzione "vecchia", se ne fa una sua,
"nuova"; dall´altra, una sinistra che, unica cosa chiara, osteggia
la costituzione della destra. Per il resto, c´è chi, nella sconfitta, invoca
la necessità di un proprio e diverso progetto, chi scrive nuove
"bozze" e chi recupera proposte d´altri tempi, senza che si riesca
nemmeno a capire, innanzitutto, qual è l´atteggiamento verso la costituzione
che abbiamo, quella che viene dalla Liberazione e dall´Assemblea Costituente
del 1947. C´è da stupirsi che, contro questi geniali capitani, cresca il
risentimento? Indipendentemente dall´essere di
destra o di sinistra e indipendentemente dal giudizio che si dia dell´opera
compiuta dal Parlamento e quindi anche nel caso che, per assurdo, la si
giudichi in sé e per sé un capolavoro costituzionale; indipendentemente da
tutto ciò, chiunque, con questo sguardo d´insieme, non può mancare di vedere
la catastrofe costituzionale che ci sta innanzi. La materia speciale di cui
sono fatte le costituzioni è l´adesione a qualcosa da costruire in comune.
Azione costituente è precisamente cercare i contenuti di questa adesione e
metterli per iscritto. C´è stata invece la ricerca consapevole del risultato
contrario: la sconfitta dell´avversario, con un colpo di maggioranza
assestato con forza costituzionale. Qui non c´è la materia; questa non è
costituzione, ma lotta costituzionale. Chi cambia la Costituzione Una Costituzione imposta così si fa
bella della parola, ma si fa beffe della sostanza. Essa, invece che
costituzione, dovrebbe dirsi atto di governo che si riveste di forma, e
quindi di forza, costituzionale. Se volessimo trovare degli antecedenti,
potremmo pensare al documento del 1653 di Oliver Cromwell, denominato
propriamente non costituzione ma Instrument of government. Si trattava di
organizzare un potere per realizzare la rivoluzione puritana. I documenti di questo
tipo sono atti di forza del governo che vogliono essere, per così dire,
massimamente forzuti o atti, per così dire, di governissimo. Si annunciano così altri scontri, non
appena (prima o poi) i rapporti di forza saranno cambiati. Come abbiamo ora
una costituzione della destra, avremo – secondo la legge universale delle
azioni e delle reazioni politiche che Benjamin Constant ha studiato rispetto
al succedersi dei colpi costituzionali in Francia, dopo la Rivoluzione – una
costituzione della sinistra? Si pensa di procedere così? Non c´è costituzione
se la sua base di consenso non trascende le divisioni della politica comune,
non trascende cioè, innanzitutto, la divisione maggioranza-opposizione. Una
costituzione del governo non è una costituzione perché non ne ha la
legittimità necessaria. Questa mancanza iniziale si rifletterà sugli atti che
saranno compiuti in futuro, sulla sua base. Invece che pacificare, alimenterà
il conflitto. Un bel risultato «costituzionale», non c´è che dire. Il testo appena approvato dal Senato
si è presentato così: Disegno di legge costituzionale presentato dal
presidente del Consiglio dei ministri (Berlusconi), dal Vice presidente
(Fini), dal ministro per le Riforme istituzionali e la Devoluzione (Bossi), e
dal ministro per le Politiche comunitarie (Buttiglione), di concerto col
ministro dell´Interno (Pisanu), e col ministro per gli Affari regionali (La
Loggia). Un piccolo aspetto di forma? No: un´aberrazione di sostanza. Questa
intestazione sarebbe naturale per una legge ordinaria, con la quale il
governo, nel rispetto del quadro costituzionale, attua il suo programma; non
lo è per una costituzione. L´iter parlamentare è stato conseguente. Il Senato
ha votato sotto minaccia di crisi di governo (e di scioglimento anticipato)
perché un ministro aveva posto una specie di questione di fiducia (vietata
dall´art. 32 del testo ora approvato) e il presidente del Consiglio e gli
altri l´avevano accettata, con riguardo addirittura ai tempi
dell´approvazione. I senatori della maggioranza hanno assicurato presenza e
voto come richiesto e, ancora una volta, si sono arresi al ricatto.
Bisognerebbe avere assistito ai lavori dell´aula, per comprendere che cosa
può significare prevaricazione del governo sulla sua maggioranza, insolenza
della maggioranza sull´opposizione e generale umiliazione del Parlamento. Gli
storici delle istituzioni ricorderanno forse solo due persone che,
sottraendosi alla logica sbagliata dello scontro tra schieramenti, hanno
salvato la dignità costituzionale del Senato: il senatore Andreotti e il
senatore Fisichella. Naturalmente, ciò che precede vuol
solo essere una precisazione concettuale ai fini della comprensione. Chi ha
agito così, sapeva certo che cosa stava facendo in quel momento e sarebbe
ridicolo fargli la morale in nome di un concetto (anche se – aggiungo – i
concetti e i loro nomi esigono rispetto). Hanno ragione quanti dicono che non
si è trattato di improvvisazione o leggerezza. Si tratta invece di una
concezione e di un programma. Anche senza arrivare a rievocare torvi
precedenti, come l´identificazione del "politico" con la
contraddizione radicale amico-nemico, è chiaro che qui, alla fine, si è
manifestata l´insofferenza, più volte onestamente dichiarata, verso la
mediazione, i compromessi, i controlli: verso quelli che, in una parola, sono
detti impacci e sono invece gli equilibri della democrazia. Sotto
quest´aspetto, la presente vicenda costituzionale è un segno di stanchezza
democratica ed è una primizia che prefigura un futuro politico: un futuro
delineato dai poteri davvero assoluti del premier e dai rapporti di
dominazione che egli potrà intrattenere con un Parlamento che, a differenza
di oggi, sarà nelle sue mani non solo de facto, ma anche de iure. Per chi li
ha a disposizione, si tratta degli articoli 14 e 16 (formazione delle leggi),
27 (scioglimento della Camera dei deputati) e 94 (governo in Parlamento). Si è detto e si dirà: ma anche la
maggioranza di centro-sinistra, alla fine della scorsa legislatura, si è
approvata da sola la "sua" riforma della Costituzione, la riforma
concernente il nuovo assetto delle regioni e delle autonomie locali. Si tenga
comunque conto delle differenze. Innanzitutto, non si è trattato di
contraddire la costituzione precedente ma di sviluppare diversamente e
ulteriormente principi preesistenti (la tutela delle autonomie, nel rispetto
dell´unità della Repubblica, conformemente all´art. 5 della Costituzione). In
secondo luogo, l´allora opposizione di centro-destra dissentiva non perché
non volesse quelle modifiche, ma perché voleva andare oltre. Voleva di più,
rispetto a ciò che era già qualcosa. Infine, le modifiche di allora sono
quasi nulla rispetto alle attuali, quanto a rilevanza e incertezza per
l´avvenire. Invocare questo precedente per giustificare il presente è dunque
una forzatura. Come ha scritto Galli della Loggia, c´è pur sempre una
gerarchia negli errori e, in ogni caso, se errore fu quello, non si vede
perché lo si sia voluto ripetere, aggravato. In effetti, fu un errore,
determinato anche da ingenui calcoli politici di breve periodo (chiudere la
legislatura con un risultato di spicco; tagliare l´erba sotto i piedi alla
Lega [!], ecc.), che ha causato poi notevoli problemi pratici di attuazione
delle nuove norme, anche in quel caso approvate in fretta e furia. Onde,
fatte le debite proporzioni, quest´accusa di aver smarrito, anzi di aver
corrotto, la materia costituzionale si estende a quella che era la
maggioranza di allora ed è l´opposizione di ora. Del resto, essa si rese
conto dello strappo che si veniva compiendo, del deficit di legittimità che
insidiava la riforma appena approvata. Fu la stessa maggioranza a chiedere il
referendum sul nuovo testo, per trarre da lì quello che in Parlamento era
mancato. E così fu compiuto un altro strappo: il referendum da oppositivo
(cioè da strumento della minoranza) qual è fu trasformato in
confermativo-plebiscitario (cioè in strumento della maggioranza) quale non
deve essere. L´effetto plebiscitario non vi fu, data l´ostica materia e la
bassa partecipazione popolare al voto; ma il precedente pericoloso fu posto e
oggi c´è chi, nell´interesse della maggioranza attuale, pensa di ripeterlo. Si tratta ora di fare opera di
restauro, in previsione del referendum. Per questo è inutile, anzi perfino
controproducente continuare con toni via via più accentuati, man mano che si
avvicinerà la data del referendum, il confronto tra le parti politiche che
stanno in Parlamento. Più si continua così, più si prosegue nella distruzione
della speciale materia di cui sono fatte le costituzioni e più si rafforza
l´impressione tra i cittadini che, in fondo, non si tratti che di una delle
tante controversie che dividono maggioranza e opposizione. In materia
costituzionale, occorre per l´appunto non dividere e approfondire le
divisioni, ma unire. Il monopolio della discussione e del confronto detenuto
dai soggetti politici avvelenerebbe ulteriormente il clima e non
prometterebbe niente di nuovo. Pochi sono ormai quelli che, da una parte e
dall´altra, sono disposti a vedere nelle parole dei propri avversari politici
qualcosa di più che non la difesa interessata delle proprie posizioni di
potere. C´è certamente dell´ingiustizia in ciò, ma purtroppo sembra essere
così e, se è così, viene per l´appunto a mancare la materia della
costituzione. Questo è invece il momento in cui la
vita politica ha bisogno di un aiuto, di un supplemento di responsabilità che
non può che essere dato dalla società non direttamente implicata
politicamente. Il referendum, sempre, è questo. In particolare lo è il
referendum costituzionale. Occorre che i cittadini che ne hanno la
possibilità, come singoli e come organizzazioni sociali, le associazioni
culturali d´ogni tipo, i mezzi di comunicazione, nei mesi che ci separano dal
voto, avvertano che questo è il momento del loro impegno. Occorre trovare
parole nuove, discorsi diversi da quelli uditi mille volte e sempre meno
ascoltati; occorre far comprendere che la posta in gioco non è il successo o
la sconfitta di questa o quella parte politica ma il modo d´essere del nostro
vivere insieme. L´obbiettivo prioritario non è ottenere la bocciatura o
l´assoluzione di questa riforma della Costituzione. E´ la ricostruzione di un
tessuto costituzionale, cioè della materia stessa di cui la Costituzione è
fatta. Il giudizio sulla riforma è secondario e, presumibilmente, verrà da sé LA PATRIA
PERDUTA - E. G. Della Loggia di ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA Corriere - 24 marzo 2005 È impossibile nascondersi la gravità
di quanto è accaduto ieri al Senato. Dopo la Camera, infatti, l’assemblea di
Palazzo Madama ha approvato definitivamente in prima lettura una riforma
della Costituzione italiana che distrugge alcuni aspetti caratterizzanti
dell’organizzazione dello Stato repubblicano e modifica in profondità il
funzionamento dei massimi organi del suo potere politico nonché lo schema dei
loro rapporti. Il panorama delle rovine è presto descritto. Viene estesa a
dismisura, anche a campi delicatissimi come quello dell’istruzione e della
sicurezza pubblica, la capacità legiferatrice delle Regioni: lo Stato
centrale mantiene sì formalmente l’esercizio di un potere d’interdizione, ma
in misura attenuata e così ambigua che l’unico risultato prevedibile è una
crescita esponenziale del contenzioso Stato-Regioni, già oggi ben oltre il
limite di guardia. Nell’ambito del potere centrale, poi, la fine dell’attuale
bicameralismo perfetto serve ad installare un Senato di nuovo tipo -
presentato come «federale» ma in realtà non eletto in rappresentanza delle
Regioni in quanto tali, e con competenze ridotte rispetto ad una vera camera
politica - e una Camera dei deputati sovrastata da un primo ministro eletto
dal popolo ma che, in barba ad ogni logica costituzionale, potrà a certe
condizioni essere sfiduciato dalla stessa ed avrà, insieme, il potere di
scioglierla quando gli piacerà. Ciò che in conclusione la riforma
costituzionale realizza - per giunta non subito ma, tanto per accrescere la
confusione, in varie tappe scaglionate nel tempo - sarà un incrocio
contraddittorio e micidiale di accentramento e decentramento, all’insegna
dell’istituzionalizzazione della paralisi e dell’apoteosi del ricatto. Del resto è solo per il ricatto
continuo e minaccioso della Lega che l’onorevole Berlusconi e la destra hanno
dato il via a un progetto simile. È esclusivamente, cioè, per il proprio
immediato tornaconto politico che il presidente del Consiglio e altre forze
della sua maggioranza, che al pari di lui non hanno mai manifestato alcun
interesse per il federalismo, e anzi sono ideologicamente ai suoi antipodi
come Alleanza nazionale, lo hanno improvvisamente abbracciato, accettando
così cinicamente di mettere mano al disfacimento del Paese. Perché di questo si tratta: la
riforma della Costituzione voluta dal governo e dalla sua maggioranza
costituisce forse il più grave pericolo che l’unità italiana si trova a
correre dopo quello terribile corso sessant’anni orsono nel periodo seguito
all’armistizio dell’8 settembre. Mentre in misura altrettanto forte sono in
pericolo la funzionalità e l’efficienza della direzione politica dello Stato
da un lato, e dall’altro alcuni valori di fondo della nostra convivenza, non
più garantiti da una tutela pubblica affidabile. Di fronte a questa prospettiva
inquietante, non ci sembra che abbia molto senso unire la nostra voce al coro
di quelli che, sia pure con qualche ragione, mettono sotto accusa le
responsabilità anche della sinistra per aver aperto la porta al disastro
attuale approvando, con una ristrettissima maggioranza, le modifiche del
Titolo V della Costituzione nella scorsa legislatura. Anche nelle
responsabilità c’è una gerarchia, e oggi quello che appare in modo
indiscutibile è il primo posto guadagnato dalla destra e dal suo capo nella
corsa a fare il male del Paese. Per realizzare il misfatto hanno bisogno però
del consenso dei cittadini nel referendum confermativo da qui ad un anno o
quando sarà: vedremo allora se gli italiani sono davvero stanchi di avere una
Costituzione e una patria. Come
raccontare la Costituzione Italiana ai nostri bambini. La Costituzione raccontata ai bambini
di Anna
Sarfatti Gli
articoli fondamentali della Costituzione per
apprendere fin da piccoli l’abicì della democrazia. In questo testo dialogano
due personaggi, simbolo di due generazioni: una maestra che racconta sotto
forma di filastrocche gli articoli della Costituzione più significativi per i
bambini; e un bambino che risponde alla maestra, commentando con spontaneità
e sensibilità le parole ascoltate. I lettori sono invitati a
identificarsi in questi personaggi, emblematici rappresentanti di quel
dialogo quotidiano e di ampio respiro che rende la scuola luogo speciale di
relazioni e di formazione. Questo lavoro si rivolge
principalmente a insegnanti e alunni di scuola primaria o del primo ciclo
della secondaria, ma anche a genitori e figli. La mediazione dell’adulto oltrechè
auspicata è necessaria per favorire il commento ai testi delle filastrocche,
per ampliarli, riportarli alle esperienze del singolo o del gruppo e infine
raffrontarli con gli articoli della Costituzione appositamente riportati in
appendice. Lo scopo di questa proposta
è quello di invitare i bambini e i ragazzi ad avvicinarsi al testo della
Costituzione attraverso un approccio giocoso, per superare il senso di
distanza creato dalla “freddezza” del linguaggio tecnico giuridico e dalla
complessità di taluni articoli. L’auspicio è che, attraverso
questa chiave di ingresso, si raggiunga l’incontro con la Costituzione per
riflettere insieme ad un livello più alto sulle nozioni di giustizia,
uguaglianza, rispetto e libertà, e per avviare nei bambini una prima
consapevolezza del proprio ruolo di cittadini. Premier
onnipotente INTERVISTA a Oscar Luigi Scalfaro: questa riforma mortifica il Parlamento e il
presidente della Repubblica di VITTORIO RAGONE la Repubblica - 25 marzo 2005 ROMA - «Celebriamo i sessant´anni
dalla liberazione da una dittatura e nello stesso tempo ci presentiamo con
questa concentrazione di poteri nelle mani di un uomo solo? E´ follia...
possibile che non abbiamo imparato nulla?» Oscar Luigi Scalfaro, presidente
emerito della Repubblica e a suo tempo bestia nera del berlusconismo
nascente, liquida così la riforma istituzionale del Polo: «mortifica»
Parlamento e capo dello Stato - afferma - e partorisce un premier
«onnipotente». «Ma onnipotenza e democrazia non possono coesistere». Presidente: il centrosinistra, dopo
il voto del Polo sulla riforma istituzionale, grida alla democrazia in
pericolo. Condivide? «Condivido per ragioni di merito e
per ragioni di metodo. Il metodo è stato incredibile». Per la verità l´attuale opposizione,
quand´era maggioranza, votò da sola la riforma del titolo quinto della
Costituzione, quello sulle competenze delle regioni. Se l´ha fatto l´Ulivo,
perché il Polo no? «Su quella decisione espressi un
parere fermamente contrario. L´ho ripetuto infinite volte: fu un grave
errore. Ma se lo si ritenne un errore allora, perché rifarlo oggi, e rifarlo
moltiplicato?». Metodo sbagliato, lei dice. E la sostanza?
Davvero si giustifica tanto allarme per gli equilibri della democrazia? «La riforma votata dalla maggioranza
stravolge la Costituzione. La nostra Carta - nata dopo una dittatura e una
guerra disastrose - poggia sul potere del popolo, inteso non come potere
della piazza ma come espressione, attraverso il voto, dei rappresentanti
liberamente eletti. Al vertice c´è il Parlamento. Il presidente della
Repubblica è al di sopra e per questo ha un potere tra gli altri, il più
forte: lo scioglimento delle Camere. Il Parlamento mette al mondo il governo
con la fiducia e lo manda a casa con la sfiducia. Abbiamo quindi un esecutivo
che è collegato al Parlamento: questo dialogo tra Parlamento e governo è la
vita delle democrazie». E perchè la riforma del Polo stravolge
questo equilibrio? «Innanzitutto, il Parlamento ne esce
mortificato perché viene privato della motivata posizione dominante di oggi.
Così il presidente del Consiglio viene scelto con voto diretto, nomina i
ministri e può revocarli; una volta fatto il suo governo si presenta al
Parlamento, cioè all´unica assemblea politica, la Camera dei deputati. Non
chiede la fiducia: può chiederla, ma come eccezione. Normalmente non la
chiede. La Camera non ha titolo per dare la fiducia. Nasce così un governo
separato dal Parlamento. Se il primo ministro scavalca le Assemblee e dialoga
col popolo, può farlo. Legittimamente. Questa grave mortificazione del
Parlamento è il capovolgimento della situazione attuale». Quali altri punti sono inaccettabili? «Il presidente della Repubblica viene
privato in particolare del potere di scioglimento, che passa al Primo
Ministro. Il capo dello Stato anche in questa riforma è definito garante
della Costituzione: ma garante come - chiedo - , di che cosa, con quali
poteri, se l´unico potere forte gli viene tolto? Già ebbi modo di dirlo al
Senato: il presidente della Repubblica lo avete messo in canottiera, anzi a
torso nudo. A queste due modifiche - ai danni del Parlamento e del capo dello
Stato - si aggiunge un primo ministro onnipotente». Un vestito su misura per Berlusconi,
no? «Non guardo, né mi interessa in
questo momento, chi sarà il primo ministro. Ma invito tutti a una
riflessione. Stiamo celebrando in questi giorni il sessantesimo della
Liberazione, il crollo di una dittatura che tolse ai cittadini la libertà, il
diritto di voto, il diritto di associazione, il diritto di sindacato e di
libera stampa per fare accenno ai più importanti... e nello stesso tempo ci
presentiamo con questa concentrazione di poteri nelle mani di un uomo solo?
E´ follia: sessant´anni sono uno spazio minimo, un niente nel cammino di un
popolo. Possibile che non abbiamo imparato nulla?». Forse se aveste collaborato a
costruire la riforma il risultato sarebbe stato diverso. «La maggioranza ripete continuamente
all´opposizione l´accusa di non aver collaborato. Ma è un´accusa falsa. Io ho
vissuto la collaborazione ai tempi dell´Assemblea costituente, quando le
forze politiche erano tutte a un tavolo per cercare di trovare un
denominatore comune: 555 eletti, al voto di fine dicembre del 1947 soltanto
62 voti contrari alla nascente Costituzione. Ogni cittadino, vedendo sorgere
il primo gennaio del 1948 la Carta, potè dire con soddisfazione: "Questa
Costituzione è anche mia", perché era stata votata da una maggioranza
enorme. La "partecipazione" di cui parla il centrodestra non è
altro che un prendere o lasciare». Anche a lei sono tornate in mente le
leggi fascistissime del ‘25? «Lasciamo stare il passato. Mi basta
dire che ieri (mercoledì, ndr) è stata per me una giornata di profonda
tristezza. Quel che è avvenuto è una vergogna sul piano storico e della
democrazia. Ed è una gran pena vedere uomini che hanno militato in forze
democratiche come la Dc e il Psi dare ogni appoggio». Ammetterà che certe esigenze, e in particolare
il rafforzamento dell´esecutivo, sono avvertite un po´ da tutti, e da anni. «L´ho detto altre volte: con questa
Costituzione e queste leggi De Gasperi ha governato per sette anni, e ha
governato bene. Ma esiste una totale distinzione fra governare e comandare.
Governare vuol dire che ognuno partecipa. Comandare vuol dire che c´è
qualcuno che ha la forza del comando e ci sono altri che accettano di essere
servi. E´ doloroso ed è pesante ma è così». Vi resta la strada del referendum. «Da mesi giro l´Italia dando il mio
apporto, ma c´è un problema che mi preoccupa fortemente: nessuno pensi che
sia così facile vincere un referendum. Il timore maggiore non ce l´ho per
coloro che vogliono a ogni costo una Costituzione fatta a uso e consumo di
qualcuno, ma per quelli che non se ne interessano, che stanno agli slogan. E
che vanno a votare non sapendo per che cosa votano. Noi abbiamo bisogno che i
cittadini italiani si esprimano con consapevolezza. Bisogna tenere gli occhi
aperti e non stancarsi mai di ricordare che ciascun cittadino è chiamato a
una grossa assunzione di responsabilità». Non teme il ritorno alle crociate, il
Paese spaccato? «Ho anche un´altra preoccupazione. Mi
sento i brividi quando costituzionalisti anche bravi, nel desiderio di
trovare comunque intese, finiscono per collocarsi in zona intermedia, più
idonea a determinare gravi cedimenti che a fare da ponte fra impostazioni
inconciliabili. Attenzione a compiere un passo che è come mettere un piede in
una tagliola». Che vuol dire? Che la guerra
dev´essere totale e la riforma è tutta da cancellare? «Non sono mai del parere: buttiamo
tutto, perché mi sembra sempre eccessivo. Però dobbiamo togliere tutto ciò -
purtroppo è moltissimo - che non è assolutamente accettabile. Non è
accettabile la mortificazione del Parlamento, che si traduce nella pesante
mortificazione dei singoli parlamentari; non è accettabile ridurre a una
figura senza poteri il capo dello Stato; e non è accettabile che una persona
sola, in regime democratico, abbia l´onnipotenza. Onnipotenza e democrazia
non possono coesistere». Saccheggio a
Palazzo Madama Saccheggio
a Palazzo Madama
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Furio Colombo:Elogio degli italiani
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Tratto da “l’Unità”, 31 Ottobre 2004 |
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Credo sia giunto il momento di dedicare agli italiani un pensiero riconoscente. Qualunque popolo governato con il cinismo, gli spettacoli da circo, le clamorose affermazioni e negazioni, la protervia e l’indifferenza, le false promesse di Silvio Berlusconi e della sua gente, con pretoriani che si dedicano alle minacce da un lato, e brave persone che dicono cose decenti ma poi sostengono e votano tutto, ma proprio tutto ciò che vuole il padrone, qualunque popolo avrebbe perso ogni fiducia nelle istituzioni e nella politica. Penso ai bravi tedeschi e ai testardi francesi. Nessuno gli farebbe ingoiare giorno dopo giorno cinque Tg che descrivono successi e glorie del regime, mentre l’impoverimento rapido e drammatico del Paese viene registrato in tutte le famiglie, e l’immagine dell’Italia nel mondo diventa più umiliante ogni giorno.
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Antonio
Tabucchi: Appello al Presidente della Repubblica Antonio Tabucchi:
Appello al Presidente della Repubblica
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Tratto da “l’Unità”, 15 aprile 2003
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Signor Presidente della Repubblica, Le rivolgo un appello urgente. In
altre occasioni durante le difficili vicende del nostro Paese in questi
ultimi anni, come altri italiani mi sono rivolto a Lei, non ottenendo
risposta. Stavolta i doveri che comportano la carica che Lei ricopre non
permettono più il Suo silenzio. Non sono io né altri cittadini italiani che
La mettono in una situazione nella quale non solo la Sua parola è
indispensabile ma il Suo silenzio sarebbe preoccupante: è lo stesso capo
del Governo, l’onorevole Berlusconi, che La costringe a esprimersi. |
Quella
irachena è una guerra contro la Costituzione.
06/03/2005 21:19
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di Claudio De Fiores
(Dal sito Costituzionalismo.it
)
Quella irachena è una guerra contro la Costituzione. Una guerra che vanifica,
sprezzantemente, l’istanza pacifista posta tra i principi fondamentali della
nostra Carta fondamentale. Gli elementi di violazione della legalità
costituzionale sono, infatti, evidenti:
a) L’art.11 della Costituzione italiana recita: “L’Italia ripudia la guerra”.
Quando venne redatta tale disposizione, il Costituente (al fine di
scongiurare in futuro eventuali ed insidiose “interpretazioni di comodo”
della norma) ritenne opportuno manifestare tale rifiuto attraverso l’impiego
di parole, il più possibile, incisive e chiare. Fino a preferire, alla poco
efficace formula “rinuncia”, il verbo “ripudia” proprio in considerazione del
suo “accento energico” che “implica così la condanna come la rinunzia alla
guerra” (Intervento dell’on. Meuccio Ruini, Assemblea Costituente, 24 marzo
1947).
Ne deriva, sulla base di tali premesse, che anche l’uso delle basi debba
quindi ritenersi costituzionalmente illegittimo se finalizzato a “supportare”
una guerra di aggressione. Un ordinamento che rinuncia e condanna tutte le
guerre di aggressione non può tollerare, in alcun modo, la concessione delle
basi terrestri, il sorvolo dello spazio aereo nazionale, l’impiego di basi
navali. Si tratterebbe, in ogni caso, di un sostegno attivo alla guerra.
Il costante richiamo, da parte del governo italiano, all’obbligo di
concessione delle basi, che sarebbe sancito in accordi particolari siglati in
ambito NATO, è privo di fondamento. Per una ragione innanzitutto: tali intese
(palesi o secretate che siano) traggono la loro legittimità dal Trattato
della Nato che, all’art. 11, prevede espressamente che tutti gli accordi
“saranno applicati dalle parti conformemente alle loro rispettive norme
costituzionali”. Se così non fosse si tratterebbe, allora, di accordi
illegittimi.
b) L’art.11 contiene un seconda istanza, funzionalmente, connessa al “ripudio
della guerra”: la costruzione, a livello internazionale, di “un ordinamento
che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni”. Una formula, questa, che
il Costituente ha ricavato direttamente dalla Carta dell’ONU, da molti
ritenuta la principale fonte di ispirazione dello stesso art. 11 della
Costituzione italiana.
Ma anche su questo piano gli elementi di violazione della legalità
costituzionale non mancano: la guerra di Bush è una guerra contraria alla
Carta dell’ONU e a tutte le norme di “diritto internazionale generalmente
riconosciute” alle quali “l’ordinamento giuridico italiano si conforma” (ex
art.10 della Costituzione).
La successione degli eventi di queste ultime settimane è stupefacente. Così
come stupefacente e senza precedenti è anche la spirale di strappi, sbreghi,
rotture della legalità internazionale perpetrati dagli USA. L’amministrazione
americana, prima, punta a stravolgere (sotto il profilo materiale) le norme
internazionali, tentando di “estorcere” al Consiglio di sicurezza un voto a
favore di una guerra che la Carta dell’ONU geneticamente ripudia. Poi, preso
atto del fallimento di tale strategia e dell’energica opposizione della
Francia (in seno al Consiglio di sicurezza) opta definitivamente per l’azione
unilaterale.
Voltate le spalle all’ONU, i governi di Stati Uniti e Inghilterra decidono
allora di muover guerra, assumendo quale fonte di legittimazione del loro
intervento la risoluzione 1441 (argomentazione, questa, ampiamente ripresa
dal Presidente del Consiglio italiano nel corso delle sue comunicazioni al
Parlamento). Si tratta, tuttavia, di un’operazione fin troppo scoperta, di un
evidente tentativo di mistificazione dei fatti che non regge alla prova del
dato giuridico e della storia: il testo della 1441 riguardava esclusivamente
i criteri e le modalità di svolgimento delle ispezioni in Iraq. E
nient’altro. La risoluzione si limitava, in particolare, a prevedere che una
volta consegnati i rapporti da parte degli ispettori, avrebbe dovuto essere
il Consiglio di sicurezza a monitorare i risultati e ad adottare le misure
ritenute più adeguate al caso. E non l’amministrazione Bush.
A fronte di violazioni così gravi della legalità costituzionale e
internazionale trincerarsi dietro gli astratti contorsionismi terminologici
del recente passato non è più possibile. In occasione dei conflitti bellici
dell’ultimo decennio abbiamo assistito all’impiego delle più stravaganti e
controverse locuzioni giuridiche, tutte ostinatamente escogitate al fine di
(tentare di) legittimare ciò che il nostro ordinamento costituzionale
considera, in ogni caso, illegittimo: la guerra di aggressione. Si è così
parlato, con sconcertante disinvoltura, di spedizioni militari fuori della
Costituzione (poiché implicanti una fattispecie estranea all’art.11) o anche
di operazioni belliche fuori dell’ONU (perché sprovviste di una adeguata
copertura giuridica da parte dell’Organizzazione).
La drammaticità del momento impone oggi, a tutti noi, maggiore chiarezza nel
linguaggio, nelle parole, nelle scelte. La guerra scatenata dagli USA in
Medioriente e appoggiata dal governo italiano non è - sia detto chiaramente -
una guerra fuori della Costituzione e fuori dell’ONU, ma una guerra contro la
Costituzione e contro l’ONU.
Claudio De Fiores
Un articolo
di Luigi Ferrajoli sul Manifesto
06/03/2005 21:11
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La Carta stravolta
LUIGI
FERRAJOLI
E' cominciata silenziosamente in senato la discussione sul progetto
governativo di revisione costituzionale già approvato dalla camera in una
prima lettura nello scorso ottobre. Si tratta chiaramente, per le sue
dimensioni e per lo stravolgimento progettato, di una nuova costituzione,
promossa da una coalizione di forze - Alleanza nazionale, Forza Italia e Lega
nord - nessuna delle quali ha partecipato alla formazione della Costituzione
attuale. Il senso politico dell'operazione è chiaro.
Ciò che si vuole realizzare è una completa
rottura della continuità costituzionale al fine di rifondare la Repubblica
sulle forze che alla Costituzione del '48 e alla sua origine antifascista
furono estranee od ostili. Proprio perché non si riconosce nella Costituzione
vigente, questa nuova destra, oggi maggioritaria in parlamento ma non nel
paese, pretende di archiviarla, di varare una sua costituzione a sua immagine
e somiglianza, di rompere il vecchio patto di convivenza che non a caso
Berlusconi ha squalificato come «sovietico». Di qui una prima domanda: è
legittima, sul piano delle forme e del metodo, una simile riforma, non
consistente in una semplice «revisione» costituzionale ma nella confezione di
una costituzione del tutto diversa, che cambia al tempo stesso la forma di
stato, da nazionale a federale, e la forma di governo da parlamentare a
para-presidenziale e tendenzialmente monocratica? La risposta è chiaramente
negativa. La nostra Costituzione, come del resto la quasi totalità delle
costituzioni democratiche, non ammette il varo di una nuova costituzione,
neppure a opera di un'ipotetica assemblea costituente eletta con il metodo
proporzionale che pur decidesse a larghissima maggioranza. Il solo potere ammesso
dal suo articolo 138 è un potere di revisione, che non è un potere
costituente ma un potere costituito, il cui esercizio può consistere solo in
specifici emendamenti; laddove, se diretto a dar vita a una nuova
costituzione, esso si converte in un potere costituente e sovrano,
anticostituzionale ed eversivo, in contrasto, oltre che con l'articolo 138,
con il primo articolo della Costituzione secondo cui «la sovranità appartiene
al popolo» che da nessuno può esserne espropriato.
Ciò cui invece stiamo assistendo è l'approvazione a colpi di maggioranza di
un testo che altera l'intero assetto istituzionale, modificando competenze e
regole di formazione e funzionamento di tutti gli organi costituzionali: del
parlamento e del governo, del presidente della Repubblica e del presidente
del consiglio, dello stato e delle regioni. Il precedente della sconsiderata
riforma del titolo V varata dall'Ulivo è invocato a sproposito: benché
gravemente colpevole, quella riforma fu pur sempre una revisione settoriale
della Costituzione che per di più riprodusse, nella sostanza, una modifica
che era stata approvata qualche anno prima dai due schieramenti nella
bicamerale. L'attuale disegno riscrive invece ben 43 articoli della seconda
parte, con gli inevitabili riflessi sulla prima. E' la vecchia idea che
Gianfranco Miglio espresse brutalmente dieci anni fa, dopo la prima vittoria
elettorale delle destre: la costituzione non è un accordo tra tutti sulle
regole del gioco ma è un «patto che i vincitori impongono ai vinti».
Ma questa nuova costituzione è illegittima non solo sul piano del metodo, ma
anche su quello dei contenuti, che come stabilì una storica sentenza della
Corte costituzionale del 1988 non possono derogare ai «principi supremi»
della Costituzione. Non mi soffermo sulla cosiddetta «devolution», che
assegnando in maniera esclusiva alle regioni scuola, sanità e funzioni di
polizia, rompe l'unità della Repubblica che si basa sull'uguaglianza dei
cittadini nei diritti fondamentali, quali sono in particolare i diritti sociali
alla salute e all'istruzione.
Neppure mi soffermo sull'incredibile complicazione, quasi un sabotaggio della
funzione legislativa, divisa tra ben quattro tipi di fonti - leggi della
camera, leggi del senato, leggi bicamerali, leggi del senato con «modifiche
essenziali» su iniziativa del governo e, in più, commissioni e comitati
paritetici per decidere chi deve legiferare e mediare i conflitti - con
l'inevitabile caos istituzionale, le incertezze e gli infiniti contenziosi
che proverranno da una ripartizione inevitabilmente astratta e generica delle
quattro competenze. L'aspetto più grave di questa riforma, senza confronti né
precedenti in nessun sistema democratico, consiste nella demolizione del
principio della rappresentanza politica, che è indubbiamente un «principio
supremo» sottratto al potere di revisione. Viene anzitutto capovolto il
rapporto di fiducia tra parlamento e governo: non sarà più il primo ministro,
legittimato direttamente dal voto popolare, che dovrà avere la fiducia del
parlamento, ma sarà il parlamento che dovrà avere la fiducia del primo
ministro, il quale potrà scioglierlo in forza di un potere affidato non più
al presidente della Repubblica ma alla sua «esclusiva responsabilità». E'
prevista soltanto la mozione di sfiducia, votata dalla camera per appello
nominale, approvata dalla maggioranza assoluta dei suoi componenti e seguita
dal suo scioglimento, salvo che sia accompagnata dalla «designazione di un
nuovo primo ministro da parte dei deputati appartenenti alla maggioranza espressa
dalle elezioni, in numero non inferiore alla maggioranza dei componenti della
camera». Non solo: «il primo ministro si dimette altresì qualora la mozione
di sfiducia sia stata respinta con il voto determinante dei deputati non
appartenenti alla
maggioranza espressa dalle elezioni».
Io credo che queste norme anti-ribaltone siano il vero cuore della riforma:
il segno inequivoco della svolta che si intende realizzare. Grazie ad esse
saranno impossibili le crisi di governo parlamentari. Maggioranza e minoranza
vengono blindate, sicché solo i parlamentari della maggioranza avranno un
potere di iniziativa politica e di
responsabilizzazione dell'esecutivo, mentre i parlamentari della minoranza
non conteranno nulla. E' la fine della rappresentanza «senza vincolo di
mandato», sancito quale principio basilare della democrazia politica
dall'art.67, essendo ciascun parlamentare vincolato alla coalizione di
appartenenza.
Non si tratta di una semplice «riforma». Con questa rigida separazione tra
maggioranza e minoranza il parlamento viene di fatto emarginato. Già con il
sistema maggioritario è stata abolita l'uguaglianza nel voto dei cittadini.
Il nuovo sistema abolisce ora anche l'uguaglianza del voto dei parlamentari
ed estromette di fatto l'opposizione da ogni funzione di controllo e di
mediazione politica. Non solo. Esso vanifica anche la rappresentatività e la
responsabilità politica dei parlamentari della maggioranza, i quali
risulteranno vincolati da un rapporto di mandato imperativo, non già dal
basso ma dall'alto, nei confronti del primo ministro. Queste norme sono
infatti dirette non solo a neutralizzare l'opposizione ma soprattutto a
disciplinare, a ricattare e di fatto a neutralizzare ogni potere di controllo
della stessa maggioranza parlamentare. Ne risulterà una totale
irresponsabilità del primo ministro di fronte al parlamento in favore di un
suo rapporto organico, diretto, con l'elettorato.
Si sta insomma progettando la soppressione della democrazia parlamentare e
forse della democrazia tout court. Giacché un organo monocratico non
accompagnato da un parlamento indipendente non può per sua natura, come
insegnava Hans Kelsen settant'anni fa, rappresentare tutto il popolo, che non
è un'entità omogenea ma una pluralità di soggetti e di interessi attraversata
da conflitti politici e di classe. La democrazia, aggiungeva Kelsen, «è un
regime senza capi». E l'idea di un rapporto organico tra un capo e il popolo
intero è un'idea rganicistica e populista che contraddice la nozione stessa
della democrazia, non diciamo costituzionale ma semplicemente
«rappresentativa».
Per questo sarebbe essenziale - prima che lo scempio si compia, prima della
seconda lettura del progetto da parte del parlamento - un messaggio motivato
del presidente della Repubblica che quanto meno ricordi alle camere i limiti
del potere di revisione, il fatto che la Costituzione è un patrimonio di
tutti e l'inviolabilità dei principi supremi tra i quali rientrano
indubbiamente la rappresentanza politica senza vincolo di mandato e il ruolo
di iniziativa, di controllo e mediazione di un libero parlamento. Se c'è un
caso in cui l'esercizio del ruolo di garante della costituzione del
presidente della Repubblica è doveroso, esso è proprio questo; tanto più che
per le leggi di revisione costituzionale ben difficilmente il presidente
potrebbe ricorrere al potere di rinvio previsto dall'art.74 prima della
promulgazione, la quale fa seguito al referendum confermativo.
Ma ancor più essenziale è l'informazione dell'opinione pubblica e la sua
obilitazione intorno al pericolo incombente. Temo che alla base dell'inerzia
dell'opposizione ci sia una scarsa consapevolezza intorno alla gravità della
posta in gioco e, insieme, il solito timore di «demonizzare» un avversario
che si rivela ogni volta peggiore e, oltre tutto, accusa quotidianamente la
sinistra di preparare al paese terrore, miseria e morte. E' invece necessario
drammatizzare la questione costituzionale proponendola, semplicemente, come
emergenza democratica: come la scelta, cui saremo chiamati con il referendum
costituzionale tra l'istituzione di un regime e la sopravvivenza della
democrazia. Solo così, del resto, il referendum potrà essere vinto: solo se
diventerà una grande battaglia di principio, non inquinata da proposte di
compromesso, consapevole della posta in gioco e dei guasti già prodotti
dall'avventura berlusconiana, capace di rifondare, nel senso comune, il
valore della Costituzione repubblicana quale fondamento della nostra
democrazia.
Appello:
comitati per il "NO" nel referendum costituzionale
06/03/2005 21:07
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APPELLO PER LA PROMOZIONE IN TUTTA ITALIA DEI COMITATI PER IL "NO" NEL REFERENDUM COSTITUZIONALE
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Scalfaro:
salviamo la Costituzione, bene di tutti
06/03/2005 14:50
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“La Costituzione, patrimonio per
tutti”
Relazione tenuta dal presidente Oscar Luigi Scalfaro presso la parrocchia di S. Giovanni in
Laterano di Milano, il 18 Gennaio ‘05
Revisione o
involuzione?
Viviamo momenti delicati, è in corso una grande lavoro per
modificare la seconda parte della Costituzione. Quando si fa una legge di
revisione costituzionale, così importante, destinata a vivere a lungo è bene
rileggere l’articolo 138 dedicato
alla revisione della Costituzione. Lo cito all’inizio perché è importante
capire se ciò che ci troviamo a
discutere è una revisione o un’involuzione.
Se dico di rivedere la mia casa, ci si aspetta di vedere delle
manutenzioni: una nuova verniciatura, un nuovo tramezzo, una finestra nuova.
Se invece demolisco la casa per costruirne un’altra il concetto di
“revisione” non può essere usato perché siamo di fronte ad una demolizione.
Tre pagine di storia
indissolubili
Ci sono tre pagine di storia, tre momenti, che persone della
mia generazione hanno vissuto e i giovani studiato. Tre momenti legati tra
loro in modo indissolubile: il no alla dittatura fascista, la lotta di
liberazione o “Resistenza”, la Costituzione.
No al fascismo
Chi reagì all’inizio della dittatura ? Pochi. La dittatura è
nata come un fenomeno democratico, non è nata come dittatura. A scuola si
studiava che il fascismo era nato con la marcia su Roma. Nella visione
giuridica, costituzionale, la marcia su Roma non esiste perché non è entità
giuridica. E’ un fatto che è stato preceduto da atti, azione violente che
hanno determinato una pressione sul Re che, in quei momenti, doveva decidere.
Ci sono state persone che hanno detto subito “no” al fascismo. Conosco
colleghi che hanno accumulato decine di anni in carcere, altre che scelsero
la strada dell’esilio all’estero. E’ sempre una minoranza che è disponibile a
giocare il tutto. Non si può pretenderlo da tutti. La Chiesa ha fatto
l’elenco dei martiri. Sono così tanti, che non si conoscono più i nomi, ma la
Chiesa non ha fatto l’elenco di chi ha bruciato l’incenso all’imperatore, che
sono certamente più numerosi dei martiri. Si è bruciato l’incenso
all’imperatore perché si doveva
portare a casa il pane per i figli, perché si aveva una famiglia sulle
spalle. La Chiesa predica le figure
dell’eroismo, le insegna, ma non lo pretende perché è maestra e madre. Fa
presente, poi chiede la grazia a Dio. Nel momento della prova se una persona
non riesce, la Chiesa non la mette sul banco degli imputati proprio in virtù
dell’essere madre.
Lotta di liberazione
Dopo l’8 Settembre ’43, momento più tragico per il Paese, è
iniziata la lotta armata di liberazione: chi in montagna, chi in città, chi
nel rischio. Certe persone hanno rischiato totalmente pagando con la vita.
Altri hanno rischiato e, in qualche modo, hanno salvato la vita. Questa è una
pagina da non dimenticare: è un fatto! Ci sono spinte, chiamate culturali, le
quali sostengono che la storia sia
diversa, non da come è raccontata, ma da come l’abbiamo vissuta. Non c’è
mestiere peggiore che cercare di cambiare un fatto! All’esame di avvocatura
il presidente del tribunale disse che il fatto è sacro, nemmeno Dio può
cambiarlo da come si è verificato! C’è stato un mondo che ha sacrificato la
vita per la libertà. Noi credenti diciamo che la libertà ci è stata donata da
Dio creandoci. Questo è vero come il fatto che sono gli uomini che possono toglierla. Se nasce una
dittatura è perché è stata tolta la libertà. Altri uomini, sacrificando la propria
vita, l’hanno riconquistata. Da quel no alla dittatura fascista è nata la
Repubblica, poi la Costituzione.
La Carta di tutti
L’Italia era un popolo che aveva bisogno di sapere chi era e
riscoprire la propria identità. Lo Statuto albertino non era stato revocato
ma, come capita con le revoche di fatto, cadendo la dittatura caddero tutte
le istituzioni della dittatura stessa. C’era un popolo che non aveva più
nulla, compresa la legge dominante per la sua convivenza nella serenità,
giustizia, pace con se stesso e con altri popoli. Questo il motivo per cui
nacque l’Assemblea costituente. Non fu una scelta, ma un obbligo! O una
scelta dovuta ad una realtà di fatto. Bisognava che questo popolo scrivesse
delle norme che servissero alla vita normale. Il 2 Giugno ’46 si votò per
scegliere tra Repubblica e Monarchia e per la Carta costituzionale. Furono
eletti nel Parlamento 555 deputati. Il 1 Gennaio ’48 andò in vigore la Carta
costituzionale votata con una maggioranza straordinaria, solo 62 deputati non
la votarono. Questo schieramento enorme fu importante e fondamentale. Solo
quella amplissima votazione poteva dare la tranquillità ad ogni cittadino di
sentirsi interpretato e coinvolto da quella legge. Alla costituente un fatto
mi colpì in particolar modo. I diversi gruppi politici e culturali, a volte
in netta contrapposizione tra loro, quando si trattava di scrivere la
Costituzione le contrapposizioni, a volte sanguigne, sparivano. Un fatto che
mi colpì molto perché le spiegazioni erano molte: la comune avversione al
fascismo, la condivisa tensione politica in nome della quale nessuno voleva
essere tagliato fuori, etc. La mia impressione di allora fu che, insieme a
queste ragioni, ce ne fosse una che fu alla base di questa capacità di
scrivere insieme: la “comune
sofferenza”. Una sofferenza patita in modi diversi ma insieme. Questo
patrimonio umano di sofferenza preparò il denominatore comune per la
scrittura della Costituzione. Come se la sofferenza aiutò a saper fare
qualcosa per gli altri.
Al centro la persona
Un rapido sguardo agli 11 articoli o principi fondamentali
della Costituzione. Per l’esattezza sono 12, personalmente escludo il 12° che
si riferisce alla bandiera della nazione. La bandiera non è una norma, un
principio, è il simbolo di tutti i principi. Parto dai principi perché vengono
toccati dalla riforma. Il primo articolo dice che : “L’Italia è una
repubblica fondata sul lavoro..”. Subito esprime una definizione universale,
come punto centrale della Costituzione italiana, qual è la “persona” umana. Qui scende la
mannaia che divide un pensiero dittatoriale da uno democratico. Nella
dittatura la persona diventa una cosa. All’Assemblea costituente l’Ac mandò
molti giovani parlamentari nella Dc. L’Ac. , in un certo senso, si era
svenata per mandare i suoi iscritti in prima linea a battagliare. E’ un
richiamo non piccolo per un mondo cattolico che oggi sta a guardare, è
alquanto impegnato a guardare. Nel passato ci insegnarono che guardare è
bene, ma dal di dentro, pagando di persona perché non solo è meglio, ma è un
dovere. E’ dovere di ogni cittadino interessarsi alla vita pubblica. Se
questo cittadino è anche cristiano, dice di essere cattolico, non ha un
diritto in più. Ma è la pesantezza, la sostanza del diritto dovere che muta.
La certezza che deve rispondere innanzitutto a Dio e certamente alla sua
coscienza, alle leggi, non c’è dubbio. Sono stato magistrato, ho la mentalità
di magistrato, guai se dovessi affermare che non sono tenuto all’obbedienza
delle leggi, salvo nel caso che la legge mi imponga ciò che è in contrasto
netto con i principi generali della morale. In questo caso sono tenuto a
ribellarmi. Ci sono principi fondamentali del diritto delle genti da
osservare. La persona è al centro e nella democrazia è esaltata nei suoi
diritti, nella sua dignità. Qui c’è il punto splendido di che cosa è, o cosa
dovrebbe essere, la politica. E’ importante che siano scritti i diritti
affinché ogni cittadino può protestare per il fatto che quel diritto scritto
gli è stato negato. Anche l’adempimento del dovere è fondamentale! E’ indispensabilità
per tutti interessarsi della cosa pubblica . Senza la comunità non si sta al
mondo. La persona umana, il cittadino, senza comunità non vive. Se mi limito
al rispetto dei miei doveri scritti ( voto, pagare le tasse ) questo non
basta. Senza dare dell’altro il cittadino, umanamente parlando, muore. Cosa
do alla comunità della capacità di pensare, di volere, di amare, di
sacrificio e di intelligenza ? Questo non è un tema solo per i cattolici, ma
per chi è cittadino “civis romanum sum”.
Riforma farisaica!
L’articolo uno, dopo avere presentato il lavoro come elemento
qualificante dell’intelligenza, volontà e dignità, dice che “la sovranità
appartiene al popolo ”. Quando ero al Colle, l’attuale presidente del
Consiglio mi disse che era inutile parlare tanto della centralità del
Parlamento perché la sovranità apparteneva al popolo, come scritto in
Costituzione. Dissi di rileggere tutto l’articolo perché precisa che tale
sovranità viene esercitata “nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Le
leggi, le costituzioni, non vanno lette a fette, non sono degli affettati
giuridici. Non è possibile vedere solo le fette che ci possono riguardare e
tralasciare quelle che non ci riguardano lasciandole sul piatto di altri. La
“sovranità appartiene al popolo”, io appartengo al popolo, sono un pezzo
piccolo di questa sovranità. Ho un tassello di questo mosaico enorme di
questa sovranità. Come uso questo tassello? Oggi con il voto eleggo un
deputato e un senatore. La riforma costituzionale porta la politica ad una
sola camera. Questo non sarebbe cosa dannosa. Con le attuali votazioni voto
una persona che ha una serie di poteri: elegge il Capo dello Stato, in
funzione di un’elezione parlamentare con maggioranza assoluta, presenti le
Regioni. Cioè il deputato elegge colui che mette al mondo il Governo, che da
la fiducia o la sfiducia. La riforma costituzionale prevede che il presidente
del Consiglio sia scelto dalle elezioni ( come avviene attualmente ) dando
l’indice di preferenza per un candidato. Questi nomina i ministri, non più il
Capo dello Stato ( arti. 92 della
Costituzione ).Un tema che non ritengo essenziale, il Sindaco di una città
nomina i suoi assessori, collaboratori. Dopo la nomina dei ministri, nella
riforma si prevede che il capo del Consiglio si presenta in Parlamento ed
espone il programma di Governo, ma non chiede la fiducia, o meglio “ non è
obbligato” a chiederla. Ciò che è grave è che il Parlamento non è tenuto a
dare la fiducia al capo del Governo, non ha più i poteri di dargli la
fiducia. Per dirla tutta la riforma usa delle formule che definisco
“farisaiche”. Si legge una formulazione che, nella mia vita giuridica, non
ho mai sentito e recita così: “ dopo
aver ascoltato il programma del capo del Governo, la Camera dei deputati si
esprime con un voto sul programma”. Oggi la Costituzione dice che la Camera
vota la fiducia ( artic.94 della
Costituzione ). Altra formula di trionfo farisaico dice che il Capo dello
Stato decreta lo scioglimento della Camera dei deputati e indice le elezioni.
Sin qui tutto è come è attualmente, ma nella casistica dei casi di
scioglimento, previsti nella riforma, proprio nel primo caso contemplato si
legge che il Capo dello Stato scioglie il Parlamento: “su richiesta del primo
ministro, che ne assume l’esclusiva responsabilità”. Siamo di fronte ad una
richiesta che, in realtà, è un diktat. Se il primo ministro dispone lo
scioglimento, mi chiedo perché il Capo dello Stato deve firmare uno
scioglimento al quale non ha partecipato a nulla? E’ una ferita gravissima!
Se passa questa riforma significa che voteremo un parlamentare,
rappresentante del popolo, che non solo non avrà più i poteri di oggi, ma che
avrà sopra la sua testa la spada di
Damocle di essere mandato a casa per decisione del presidente del Consiglio,
cioè dal capo dell’Esecutivo, che dovrebbe discendere dal potere parlamentare
e legislativo.
La legge è uguale per
tutti
Abbiamo avuto una serie di leggi per Caio, Tizio e Sempronio.
Sin dalle elementari ci spiegavano che la legge è una disposizione che vale
per tutto il popolo. Se c’è una legge per i pompieri riguarda loro, ma deve
essere scritta in modo tale che non danneggi il diritto di nessuno, così c’è
armonia. Quando si fa una legge solo perché Tizio non sia processato, siamo
di fronte ad una gravissima patologia. Si è fatta una norma che diceva che i
cinque vertici dello Stato ( Presidente della Repubblica, di Camera e Senato,
del Consiglio e della Corte costituzionale ), qualora avessero dei processi
pendenti, dovrebbero essere sospesi per il periodo del loro mandato. C’è
stata polemica alla quale ho partecipato. Guardando alla realtà, in questo
caso su cinque persone solo una aveva bisogno della sospensione, gli altri
quattro sono stati aggiunti perché la solitudine è sempre cosa non piacevole.
La Corte costituzionale successivamente ha emesso una sentenza che ha
giudicato tale norma incostituzionale e, quindi, sono morte decadute.
Incostituzionali perché l’articolo 3 della Costituzione fa un’affermazione
scritta in tutte le costituzioni del mondo, anche dove non è applicata, cioè
che la legge è uguale per tutti. Nessuno ha il coraggio di dire che la legge
non è uguale per tutti. La legge è sempre uguale per tutti! L’articolo 3 non
solo afferma che “Tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge”, dice
qualcosa in più, che hanno “pari dignità sociale”: il facchino, lo
scienziato, il presidente della cassazione, l’uomo e la donna, colui che è
imputato, etc., tutti hanno parità e dignità sociale. Sono principi
impressionanti e, se applicati, dicono che la Costituzione è per tutti.
Abbiamo visto come è iniziato il nuovo anno giudiziario. In tutte le Corti di
Appello i magistrati non hanno voluto partecipare indossando la toga nera, o
manifestando con la Costituzione in mano. Non è un tema che si possa vedere ad occhi chiusi: è il
malessere. Quando c’è un’insoddisfazione così unanime perché non fermarsi un
momento a riflettere? Il ministro della Giustizia a Palermo ha dichiarato di
essere aperto alla discussione. Essere aperti alla discussione non significa
discutere su una decisione già presa. Questo significa prendere o lasciare.
Quando, attorno ad un tavolo, si discusse all’Assemblea costituente, prima di
affermare come era un articolo, tutti partivano da zero. Ognuno discuteva su
tutto, dallo sforzo di tutti nasceva la norma, l’articolo.
Rompere il silenzio con la verità
Nella procedura di revisione costituzionale, già votata al
Senato e alla Camera, noi abbiamo già una parte di testo che non è
discutibile in quanto ha già avuto la doppia votazione. In note trasmissione
televisive, con noti giornalisti, si
discute di tutto tranne che della riforma costituzionale, che tocca
tutti i cittadini. Non c’è stato un quotidiano che abbia sollevato la
discussione o espresso pareri in merito. Tutto questo alla vigilia di
probabili votazioni finali. Il mio terrore è che si vada al “referendum” con
tante persone, cittadini, che non sanno cosa andranno a votare. La
Costituzione è un tema che interessa tutti, che non può essere affrontato a
colpi di slogans. Bisogna affrontarlo con umiltà, senza aggredire nessuno, ma
senza cedere mai. Sui principi la strada del gettare la spugna non esiste! Al
Senato dissi che con questa riforma il Capo dello Stato era in canottiera
perché gli aveva tolto i poteri, ma in realtà avrei dovuto dire che era a
dorso nudo. Chi è e chi fa il garante? Come norma costituzionale è il Capo
dello Stato. Quando mi fu chiesto ciò che non potevo fare, dissi che avevo
giurato sulla Costituzione. L’attuale presidente del Governo, quando si
presentò sfiduciato dall’on. Bossi, mi chiese tre cose: lo scioglimento del
Parlamento, le elezioni, ed elezioni con il suo Governo. L’ho citato molte
volte, gli risposi con tre no! La vita mi insegna che quando si accettano
discussioni sui temi indiscutibili, perché vincolati da un giuramento, si
infilano i piedi in una tagliola. Poiché sui principi nessuno è proprietario,
dissi tre no! Se avessi detto di si avrei fatto un passo contro la
Costituzione mettendomi sul banco degli imputati con l’accusa di alto tradimento
alla Patria. Mi pare giusto testimoniare la verità. Non c’è stato un
quotidiano che abbia sollevato la discussione o espresso pareri in merito.
Tutto questo alla vigilia di probabili votazioni finali. Non c’è nulla di più
falso nel dire che la politica costringe a mentire, a non dire il vero. Nella
mia vita non mi sono mai trovato a mentire, se avessi detto una cosa non vera
l’avrei detta io, per miseria e imbecillità mia, per disonestà mia, non
perché la politica costringe alla menzogna. Se una persona ha spina dorsale,
igiene mentale e intellettuale, non esiste nessuna attività che la costringe
alla menzogna.
Il vero garante: il
cittadino!
Il garante è il Capo dello Stato, il Parlamento, il Governo,
la Corte di Cassazione. Ma chi è il vero garante ? Mi permetto di dire che il
vero garante è il cittadino. E’ il cittadino se crede nella Costituzione, nel
dovere del cittadino di fronte alla comunità della quale ha l’onore di farne
parte. Il vero garante è il cittadino. Lo è maggiormente se è chiamato ad un
referendum perché è l’unico caso, nella nostra Costituzione, in cui si
esercita la democrazia diretta. Significa che è il popolo che dice ai suoi
rappresentanti di fermarsi perché è il cittadino che deve decidere. Di fronte
a questi impegni ognuno deve sentire l’enorme responsabilità che ha per oggi,
per il domani. Ci sono state persone che hanno pagato con la vita questa
Carta costituzionale, non dimentichiamo quella pagina nel momento in cui
troviamo, una riforma che capovolge la Costituzione, un Parlamento
mortificato e “tutti” i poteri
concentrati in un’unica persona. Questi peccati nella storia sono già
avvenuti, non è il caso di ripeterli.
( testo rivisto da Silvio
Mengotto )
Un articolo
di Nando Dalla Chiesa su l'Unità
06/03/2005 12:01
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Ciampi
e i demolitori della Costituzione
di Nando Dalla
Chiesa
Achtung. Il fuoco cova sotto la
cenere. E mica poco. Mentre l'attenzione vola giustamente verso altre e ben
più disgraziate aree del pianeta, il messaggio di Ciampi alle Camere si
appresta a diventare una clamorosa occasione di scontro per rimodellare i
rapporti tra Parlamento e Presidenza della Repubblica. Ossia per modificare
abusivamente la Costituzione e le relazioni tra gli organi dello Stato. Per
allargare, volendo usare una espressione che piace da matti al ministro
Castelli, il fossato tra “Costituzione vigente” e “Costituzione vivente”. E
sarà bene se l'opposizione arriverà a questo appuntamento avendone compreso
in pieno, e in anticipo, il significato e la portata; senza credere troppo ai
fine d'anno alla melassa dipinti dalle cronache dell'ennesimo rimpasto
governativo.
Che cosa abbia scritto Ciampi nel suo messaggio è arcinoto.
La legge che riforma l'ordinamento giudiziario è palesemente incostituzionale
su quattro punti, dalle invasioni di campo del ministro della Giustizia allo
svuotamento di funzioni del Consiglio superiore della magistratura. In più il
modo di legiferare adottato configura anch'esso una violazione della
Costituzione. Nel complesso la riforma infrange non un singolo comma, ma ben
sei articoli della Costituzione. Cinque del Titolo IV: 101 (i giudici sono
soggetti soltanto alla legge); 104 (la magistratura costituisce un ordine
autonomo e indipendente da ogni altro potere - corsivo mio); 105
(funzioni del Consiglio superiore della magistratura); 110 (compiti del
ministro della Giustizia); 112 (obbligatorietà dell'azione penale). Cinque
articoli su tredici, ossia quasi la metà dell'intera parte che la
Costituzione riserva alla giustizia. Più l'articolo 72 sulla formazione delle
leggi. Il messaggio demolisce insomma l'ispirazione generale della nuova
normativa. Anche perché, come è risaputo, esso non può che indicare i punti di
palese incostituzionalità, visto che su quelli che richiedono una valutazione
più accurata la Costituzione rinvia al successivo esame della Corte
Costituzionale. È per questo che quando il presidente scrive nel suo
messaggio, con responsabile neutralità lessicale, che la norma rappresenta un
atto “di grande rilievo costituzionale”, non sembra tanto volersi profondere
in complimenti verso il legislatore quanto metterlo in guardia circa la
portata devastante dell'atto stesso verso la Carta repubblicana.
Ebbene, che cosa sta accadendo in vista del nuovo passaggio
parlamentare della legge? Sono in corso grandi, grandissime manovre. E
stavolta è il Quirinale, la massima istituzione di garanzia, a trovarsi nel
mirino della strategia offensiva della maggioranza. Quanto al modo di
legiferare ci ha già pensato il quotidiano della famiglia Berlusconi: tirando
in ballo il Ciampi di governo per dirgli che è lui il precedente illustre
nella stirpe dei legislatori incostituzionali. Nessun precedente tiene il
paragone con gli usi e costumi attuali, naturalmente. Ma l'importante, come
sappiamo, è andare all'attacco.
Quanto alla controffensiva sui contenuti, invece, abbiamo
avuto alcuni assaggi consistenti. Anzitutto le reazioni di pancia al momento
della lettura del messaggio in aula, prima di Natale. In Senato dai banchi di
Lega e Forza Italia si sono levati fischi e urla, ed è risuonata più volte,
con riferimento al messaggio, la domanda “chi l'ha scritto?”. Il presidente
eletto da tutti, dunque, è stato trattato come il suo predecessore Scalfaro
(ossia con schiamazzi e improperi) appena ha richiamato il governo alla Carta
alla quale ha prestato giuramento. Poi sono arrivati i toni compunti del
giorno dopo. Sotto la forma rispettosa, però, si annidava la sottile
insolenza di chi giurava che si trattasse di quisquilie. Ossia: il capo dello
Stato usa lo strumento eccezionale del messaggio per parlarci di cose di poco
conto. Il tutto condito dai rimproveri di Berlusconi ai suoi “cretini” che
fanno le leggi (ci sta anche questo nel rapporto padronale, evidentemente).
E ora, ora dopo i due giorni postnatalizi in cui il Senato
è stato investito, in commissione giustizia, della decisione se rivedere
l'impianto della legge o andare a una semplice correzione chirurgica, che
cosa si annuncia per il caldo, bollente gennaio parlamentare? Si annuncia un
attacco a Ciampi su tutta la linea. Con sapiente (e in parte spontanea)
divisione dei compiti. Gli atti parlamentari parlano chiari, anche se il
resoconto sintetico non si fa carico - per sua natura - di tutte le
espressioni verbali effettivamente pronunciate, che ho trascritto nei miei
appunti. Anzitutto si contesta la legittimità costituzionale dello stesso
messaggio, il cui senso viene dunque rispedito al mittente. Perché esso
esprimerebbe - in forma più spiccia secondo alcuni, più paludata secondo
altri - l'esistenza di una “quarta Camera” (qual è la terza, volete sapere?
nel linguaggio della maggioranza sarebbe il Csm), costituita dall'asse
Presidenza della Repubblica-Corte Costituzionale. Questa quarta Camera,
agendo con perfetta sintonia delle sue due componenti, innesca ormai un
“cortocircuito istituzionale” con caratteristiche di recidività, “menomando
la capacità legislativa del Parlamento”. Insomma la Presidenza della
Repubblica e la Corte Costituzionale, attraverso questa attività aggressiva
verso il Parlamento, rappresentano esse i veri colpevoli di una violazione
della Costituzione e della sovranità popolare. Esse sono la fonte del
sopruso. Non il parlamento, non la maggioranza, non il partito di proprietà
del premier (con “cretini” annessi) confiscano prerogative costituzionali
alla magistratura, al Csm, alla Corte, alla Presidenza della Repubblica. Ma
Corte e Capo dello Stato confiscano le prerogative del parlamento. Questa
sarà la partita di gennaio. La cui portata - si può dire, almeno
tecnicamente? - eversiva sarà addolcita da due tesi anch'esse espresse con
una certa organicità nel dibattito della commissione giustizia.
Tesi numero uno. In realtà noi non ce l'abbiamo con Ciampi.
Ce l'abbiamo con la magistratura. Meglio, con quei suoi esponenti che hanno
scritto il messaggio, prendendo Ciampi in contropiede mentre era in viaggio
in Cina. I consulenti, gli uffici del Quirinale: sempre loro, i magistrati
(come se non fossero magistrati quelli che hanno scritto la legge...). Loro
che si sono cucinati pure il capo dello Stato, ridotto a macchietta subornata
o ingannata, quasi una riedizione di re Sciaboletta, che parla di
competizione e di investimenti dalla Cina mentre a Roma i suoi uffici mandano
alla Camere dei messaggi il cui merito gli sfugge. Tanto che, si argomenta,
anche il rilievo sull'articolo 110 (i limiti all'azione del ministro) è
infondato in punto di diritto costituzionale.
Tesi numero due. Il messaggio parla di pinzillacchere.
L'impianto della legge ha tenuto, si tratta solo di pochi punti. Anzi, ha
affermato testualmente il ministro Castelli, “il quarto punto è quello
realmente importante”. Gli altri, si dovrebbe dedurre, no; non sono
“realmente importanti”, forse sono bagattelle, certo roba che si tira giù con
un colpo di penna o si sostituisce con qualche frase ben costruita. Tanto è
vero, dice sempre il ministro, che la norma contestata nel secondo punto del
messaggio, quella che istituisce il monitoraggio sui processi (con larvata
finalità punitiva verso le procure indisponenti), egli lo ha già tradotto in
pratica, lo fa già. E allora il massimo che ci vuole è un bell'intervento
circoscritto, di precisione. Ma può mai essere così quando lo stesso ministro
si lascia scappare con orgoglio che il merito principale di questa legge è di
essere stata fatta “contro il parere della magistratura”? Non di avere
abbattuto questo privilegio, non di avere sconfitto quel pregiudizio
borbonico; ma di essere stata fatta nel suo insieme “contro il parere della
magistratura”, la quale per anni non ha fatto altro che appellarsi alla
Costituzione?
Ecco perché si apre una fase cruciale per i nostri
equilibri istituzionali. Perché la posta è se si deve dare il via libera nei
fatti a una nuova “Costituzione vivente”. E se in questo paese tutte le
autorità di garanzia, anche le più alte, le più simboliche, debbano essere -
ed essere trattate - come il prossimo Antitrust. E scusate se è poco.
Intervista a
Franco Bassanini
06/03/2005 11:59
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«La
Costituzione va difesa anche in piazza»
di Simone
Collini
ROMA Riprende
oggi al Senato l’iter della riforma costituzionale. Mentre in aula si
comincia a votare il testo contenente premierato assoluto e devolution,
davanti a Palazzo Madama si svolgerà una manifestazione di protesta
organizzata dal Coordinamento nazionale per la difesa della Costituzione, di
cui fanno parte Astrid, Libertà e Giustizia, Cgil, Cisl e Uil, molte grandi
associazioni come l’Arci, le Acli, l’Anpi e tante altre. «È l’ampiezza di
questo schieramento che ci rende fiduciosi della possibilità di fermare
questa sciagurata iniziativa», spiega Franco Bassanini, senatore Ds e
presidente dell’associazione di studi sulle riforme istituzionali Astrid.
Senatore Bassanini, la Casa delle libertà non ha
aspettato neanche che finisse la discussione in commissione e ha portato il
disegno di legge in aula. Come giudica questa accelerazione?
«Ormai è evidente che la maggioranza non solo ha deciso di
andare fino in fondo ma, succube dell’ennesimo ultimatum di Bossi, ha
blindato il testo approvato questo autunno dalla Camera».
Come ci sono riusciti?
«In commissione, prima hanno respinto in blocco tutti gli
emendamenti dell’opposizione, persino quelli che contenevano correzioni
tecniche e direi incontestabilmente necessarie. Poi, dopo poche sedute, hanno
troncato il confronto e deciso di contingentare i tempi. Il che dimostra che
la maggioranza non intende né confrontarsi con l’opposizione, né avere un
reale dibattito al suo interno».
Qual è il loro obiettivo?
«Tutto fa pensare che sia vero quanto riferito da varie
fonti, e cioè che Bossi ha posto come condizione per la tenuta e la
sopravvivenza della maggioranza che il Senato concluda l’esame della riforma
prima delle regionali, e concluda approvando il testo varato dalla Camera
senza alcuna modifica. Se riescono a blindare il testo, le altre due letture
necessarie saranno fulminee, perché i regolamenti parlamentari prescrivono
che si dia un solo voto sul testo complessivo, senza più la possibilità di
presentare né discutere emendamenti. E questo sarebbe particolarmente grave.
Non solo perché questa riforma contiene scelte che scardinano il nostro
impianto costituzioanle e che ci porterebbero fuori dalla categoria dei paesi
democratici, ma anche perché questo testo contiene dei veri e propri errori
tecnici che renderebbero ingovernabile il Paese».
All’ultima iniziativa davanti al Senato, organizzata la
scorsa settimana dai Girotondi contro la cosiddetta «salva-Previti», c’erano
un centinaio di persone. Non siete preoccupati di dar vita a un’iniziativa
sotto tono?
«È chiaro che la stagione non è delle migliori, anche viste
le condizioni atmosferiche. Però, al di là del risultato numerico della
manifestazione, è necessario mantenere viva l’attenzione su questo tema,
anche perché manca su questo punto l’informazione dei grandi mezzi. Quella
davanti al Senato, comunque, non è un’iniziativa isolata. In questi mesi abbiamo
girato l’Italia per incontri dedicati alla questione, e continueremo a farlo.
Soprattutto Scalfaro, che è il presidente del coordinamento nazionale, io e
Sandra Bonsanti ci siamo ritrovati in serate in cui non bastavano i posti a
sedere. Questo vuol dire che nel paese c’è un grande interesse su questo
tema, e al tempo stesso una scarsa consapevolezza di quanto sta avvenendo. La
maggior parte delle reazioni dei partecipanti sono di stupore, ci chiedono
come sia possibile che non siano stati informati dei cambiamenti che porterà
questa riforma se approvata definitivamente».
Quali sono le questioni che preoccupano di più?
«Intanto, il fatto che sia messo a rischio lo stesso
principio democratico. La Costituzione dice che la sovranità appartiene al
popolo. In questa riforma il popolo è sovrano un giorno ogni cinque anni,
quando elegge il primo ministro e gli trasferisce pieni poteri. C’è poi il
completo annullamento del ruolo del Parlamento, perché il premier, con la
minaccia dello scioglimento della Camera, può farsi approvare praticamente
tutto quello che vuole. A preoccupare è anche la devolution, che scardina
l’unità del paese attribuendo competenze legislative esclusive alle Regioni
in settori importanti come la sanità, l’istruzione, la polizia locale e che
spaccando il paese, dividendolo in regioni ricche e regioni svantaggiate,
viola l’articolo 2 della Costituzione, che sancisce i doveri inderogabili di
solidarietà. La riforma porterebbe poi all’indebolimento di quasi tutti gli
organi di garanzia. Il presidente della Repubblica e la Corte costituzionale
diventerebbero organi della maggioranza e il principio della divisione dei
poteri sarebbe fortemente minacciato. Questo i cittadini lo devono sapere».
Alcune idee
sulla nostra Costituzione
06/03/2005 11:37
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di
Norberto Bobbio
Il testo qui proposto è stato
scritto dall'autore come introduzione allo studio della Costituzione Italiana
per un testo scolastico, in adozione negli anni 1980.
Bobbio mostra come la nostra
Costituzione sia la risultante, nei suoi principi ispiratori, di quattro
"idee cardinali" maturate nella cultura giuridica della vecchia
Europa.
L'idea fondamentale del liberalismo è che l'individuo
ha un valore assoluto, indipendentemente dalla società e dallo Stato di
cui fa parte, e che pertanto lo Stato è il prodotto di un libero accordo tra
gli individui (contrattualismo). Il liberalismo nasce dalla crisi della
concezione autoritaria e gerarchica della società, propria del pensiero
medioevale. Si afferma in un primo tempo nel corso delle guerre di religione
- soprattutto per opera delle sette non conformiste che affermano i diritti
della coscienza individuale contro la supremazia delle Chiese organizzate e
contro gli Stati confessionali -, come liberalismo religioso, cioè come
affermazione della libertà religiosa, ovvero della libertà di credere secondo
coscienza e non per imposizione. Nell'organizzazione della società, il frutto
più alto del liberalismo religioso è il principio di tolleranza,
secondo cui nessuno deve essere perseguitato a causa della propria
professione di fede. Il liberalismo si sviluppa poi nelle idee dei primi
teorici dell'economia e in genere nei pensatori illuministi come liberalismo
economico, cioè come affermazione del diritto dell'individuo ad essere
affrancato dai vincoli alla disposizione e alla circolazione dei beni
d'origine feudale, a cui si erano sovrapposti, durante il periodo della
monarchia assoluta, i vincoli derivanti dal protezionismo statale
(mercantilismo), e a svolgere la propria iniziativa nel campo dell'economia,
secondo le proprie capacità e non seguendo altra regola che quella del proprio
interesse individuale sino al limite in cui questo non contrasta con
l'interesse altrui. Alla concezione liberale della vita economica è connessa
l'idea di concorrenza e quindi della lotta disciplinata
dal diritto, come metodo di convivenza e pungolo del progresso
sociale. L'idea liberale trova infine la sua conclusione nel liberalismo
politico, la cui patria è l'Inghilterra, ossia una determinata concezione
dello Stato, nella concezione appunto dello Stato Liberale: secondo questa
concezione, il fine dello Stato non è già un fine positivo, di
provvedere, ad esempio, al bene comune, di rendere i sudditi moralmente
migliori, o più saggi, o più felici, o più ricchi, ma è il fine
negativo di rimuovere gli ostacoli che impediscono al cittadino di
migliorare moralmente, di diventare più saggio, più felice, più ricco,
secondo le proprie capacità e a proprio talento.
Contro lo Stato assoluto, in cui il sovrano, ha
un potere senza limiti giuridici, cioè legibus solutus, lo
Stato liberale è uno Stato limitato, cioè uno Stato in sui si tende ad
eliminare il più possibile gli abusi del potere, e quindi a garantire la
libertà dei cittadini dall'ingerenza dei pubblici poteri. Questi limiti
derivano, in sede di principio, dai compiti ristretti che vengono attribuiti
allo Stato, inteso come arbitro nella gara degli interessi individuali e non
come promotore esso stesso di interessi comuni. Rispetto alla struttura
giuridica i limiti del potere dello Stato vengono posti mediante due
istituzioni caratteristiche: anzitutto mediante il riconoscimento che
esistono diritti naturali dell'individuo anteriori al sorgere dello
Stato, che lo Stato non può violare, anzi deve garantire nel loro
libero esercizio (dottrina del diritto naturale); in secondo luogo, mediante
l'organizzazione delle funzioni principali dello Stato, in modo
che esse non vengano esercitate dalla stessa persona o dallo
stesso organo (come accadeva nelle monarchie assolute), ma da diverse
persone o organi in uno o altro modo cooperanti (dottrina della
separazione e dell'equilibrio dei poteri).
Mentre il liberalismo ha per principio
ispiratore la libertà individuale, il principio ispiratore dell'idea
democratica è l'eguaglianza. Liberalismo e democrazia non
sempre si possono facilmente distinguere, perché rappresentano due momenti
della stessa lotta contro lo Stato assoluto. Il quale, come Stato senza
limiti, offende la libertà, ma, come Stato fondato sul rango, sui privilegi
di ceto, sulla distinzione dei cittadini in diversi stati con diversi diritti
e doveri, offende l'eguaglianza. Ciononostante sono due momenti distinti, e
spesso nella storia costituzionale, appaiono contrapposti, anche se oggi,
essendo confluiti l'uno nell'altro, hanno dato origine a regimi che sono
insieme liberali e democratici.
Partendo dall'idea dell'uguaglianza, la teoria
democratica afferma che il potere deve appartenere non ad uno solo o a pochi,
ma a tutti i cittadini. Nonostante i molteplici significati assunti nel
linguaggio politico contemporaneo dal termine "democrazia", vi è un
concetto fondamentale a tutti comune, quello di sovranità popolare.
Secondo la teoria democratica, la sovranità, cioè il potere di dettar leggi e
di farle eseguire, risiede nel popolo: se il popolo può trasmettere questo
potere, o meglio l'esercizio di questo potere, temporaneamente ad altri, per
esempio ai suoi rappresentanti, come accade nel sistema parlamentare, non può
rinunciarvi e alienarlo per sempre. A questa stregua, mentre il liberalismo
tende a proteggere essenzialmente i diritti civili, per esempio
la libertà di pensiero e di stampa, di riunione e di associazione, la
dottrina democratica ha come suo fine principale la difesa dei diritti
politici, con la quale espressione si intendono i diritti di
partecipare direttamente o indirettamente al governo della cosa pubblica. Uno
Stato è tanto più democratico quanto più numerose sono le categorie dei
cittadini a cui estende i diritti politici, sino al limite del suffragio
universale, cioè dell'attribuzione dei diritti politici a tutti i cittadini
con la sola limitazione dell'età, e quindi prescindendo da ogni differenza
riguardante la ricchezza, la cultura o il sesso. Il che
spiega, tra l'altro, come vi possa esser un divario tra uno Stato liberale
puro e uno Stato democratico puro: uno Stato in cui fossero riconosciuti i
principali diritti civili, ma il suffragio fosse ristretto, come accadeva in
Italia sino al 1912, poteva dirsi liberale, ma non democratico; d'altra
parte, uno Stato a suffragio universale può, servendosi degli stessi congegni
della democrazia, instaurare un regime illiberale, come è accaduto in
Germania nel 1933, quando il nazismo si impadronì del potere attraverso le
elezioni.
Strettamente connessi con l'attribuzione dei
diritti politici sono altri due istituti che caratterizzano lo Stato
democratico: il sistema elettivo, che si differenzia dalla
ereditarietà e della cooptazione, e in tal guisa permette l'esercizio del
potere dal basso, o dello Stato fondato sul consenso; e il principio
maggioritario, secondo cui le deliberazioni degli organi collegiali
debbono essere prese a maggioranza, dal quale deriva il sistema cosiddetto
del governo di maggioranza, che si distingue tanto da quello
autocratico del governo di minoranza o di uno solo, quanto da quello, del
resto irrealizzabile, dell'umanità. Questi diversi principi hanno contribuito
alla formazione di una particolare forma di governo, che è andata attuandosi
in Europa, con alterne vicende, via via che crollavano le antiche monarchie
assolute, cioè alla formazione del regime parlamentare.
Così come l'ideale di uguaglianza politica e
giuridica ha via via integrato quello liberale della libertà individuale,
così l'ideale dell'uguaglianza sociale ed economica, propugnato
dal socialismo, si è sovrapposto e talvolta contrapposto, nel corso
dell'ultimo secolo, a quello democratico. Anche il socialismo muove da una
aspirazione egualitaria: ma considera l'eguaglianza politica e giuridica,
promossa dalla dottrina democratica, un'eguaglianza puramente formale. Che il
potere politico si diviso fra tutti i cittadini e che tutti i cittadini siano
uguali di fronte alla legge, è, per la dottrina socialista, una conquista
necessaria ma non sufficiente. Sarebbe sufficiente se l'unica forma di
potere, di cui i detentori potessero abusare per opprimere gli altri, fosse
il potere politico. Ma il potere politico è molto spesso uno strumento di
dominio nelle mani di coloro che detengono il potere economico: una tesi
costante delle dottrine socialiste, nelle differenti e talora opposte
correnti a cui hanno dato luogo, è che il potere politico è al servizio del
potere economico, perciò la causa delle ingiustizie sociali che generano il
disordine delle società non è tanto la differenza tra governanti e governati,
quanto quella fra ricchi e poveri, di cui la prima è uno specchio
generalmente fedele. Pertanto il socialismo ritiene che, per estirpare alle
radici il disordine sociale, occorra instaurare un ordine in cui sia
combattuta non solo la diseguaglianza politica, ma anche quella economica.
Il mezzo che il socialismo propugna per
eliminare la diseguaglianza economica è l'abolizione, in tutto o in parte,
della proprietà individuale, e l'instaurazione di un regime sociale fondato,
in tutto o in parte, sulla proprietà collettiva. Il socialismo è sempre una
forma, più o meno ampia, di collettivismo. Distinguendo la
proprietà dei mezzi di produzione (per esempio la terra) dalla proprietà dei
prodotti, si possono avere tre forme diverse di socialismo secondo che
l'abolizione della proprietà individuale cada: 1) sui mezzi di produzione; 2)
sui prodotti; 3) contemporaneamente sui mezzi di produzione e sui prodotti
(collettivismo integrale). Per quel che riguarda i titolari della proprietà
collettiva, essi possono essere, essi possono essere tanto piccole o grandi
associazioni di lavoratori (come le cooperative, o le fattorie collettive
dell'URSS), e in questo caso si parla di socializzazione della
proprietà individuale, quanto gli enti pubblici o lo Stato, e in questo caso
si parla di statalizzazione o
nazionalizzazione (soprattutto delle grandi imprese).
La trasformazione della proprietà implica pure
una profonda trasformazione nella funzione dello Stato. Mentre lo Stato
liberale si astiene dall'intervenire nei rapporti economici, ed è, come si
dice, neutrale, lo Stato socialista considera uno dei suoi principali compiti
quello i intervenire per indirizzare le attività economiche verso certi fini
di interesse generale, ora limitandosi a proteggere i più deboli
economicamente con varie forme di assistenza (Stato
assistenziale, nella espressione inglese Welfare State,
cioè Stato-benessere), ora dirigendo, attraverso una pianificazione parziale
o totale, l'economia del paese (Stato collettivista). In questo
senso lo Stato socialista si oppone allo Stato liberale.
Rispetto alle idee sulla organizzazione dello
Stato, dunque, mentre democrazie e socialismo possono collaborare ed
integrarsi, onde lo forme molteplici di democrazia sociale del mondo
contemporaneo, non sembra che eguale collaborazione possa avverarsi tra
socialismo e liberalismo. Sino ad ora, almeno, nella misura in cui lo Stato
socialista avanza, la dottrina dello Stato liberale declina. Il liberalismo
ha una concezione negativa dello Stato, il socialismo una concezione
positiva; là lo Stato è un regolatore delle attività economiche altrui, qua è
esso stesso il protagonista dello sviluppo economico della nazione; l'uno si
propone di esser semplice custode o guar-diano del benessere individuale,
l'altro pretende di essere il promotore dell'interesse comune.
Il socialismo è dottrina antica: ma solo nel
secolo scorso è passato da una fase utopistica (che va da
Platone a Campanella, da Morelly a Fourier), cioè di ideazione più o meno
fantastica di una società socialista, alla fase realistica, per
opera soprattutto di Marx e di Engels, cioè alla fase di promovimento e
organizzazione di movimenti politici in favore del proletariato (i partiti
socialisti). Questi movimenti hanno assunto prevalentemente due indirizzi,
che si susseguono con alterna vicenda nella storia ormai secolare del
socialismo: l'indirizzo riformistico, che tende all'attuazione
dello Stato socialista attraverso graduali riforme da ottenersi con metodo
democratico e servendosi degli istituti caratteristici del governo parlamentare;
l'indirizzo rivoluzionario, per il quale la società socialista
non può essere raggiunta se non attraverso lo scardinamento della società
capitalista borghese, la distruzione dello Stato di classe, e la conseguente
sostituzione della dittatura del proletariato alla dittatura della borghesia.
Le manifestazioni storicamente più importanti di questi due indirizzi sono il
labourismo, che ha provocato radicali trasformazioni della
società e dello Stato in Inghilterra e in alcuni Stati dell'Europa del Nord, e
il comunismo, che ha condotto il movimento operaio alla
conquista del potere in Russia, con la Rivoluzione d'Ottobre (1917), e dopo
la seconda guerra mondiale, per tacere degli Stati minori dell'Europa
orientali, in Cina, alla fine della lunga guerra civile e nazionale (1948).
Quando ormai la contesa tra gli ideali liberali
e socialisti era divampata, si venne formando, verso la metà del secolo
scorso, una nuova dottrina politica e sociale, che prese posizione, con un
programma di conciliazione tra i due contendenti, ed ha avuto crescente
influsso, in alcuni Stati, sulla vita politica e sociale, soprattutto negli
ultimi decenni: la dottrina sociale della Chiesa cattolica, nota col nome di cristianesimo
sociale.
Del liberalismo essa rifiuta il presupposto
individualistico e la libertà di concorrenza, che condurrebbero ad una lotta
di tutti contro tutti, ove il più povero è destinato a soccombere. Ma pure
accettando, del socialismo, l'esigenza di proteggere le classi più umili contro
quelle dei più potenti, cioè l'impostazione di quella che si chiamò la
"questione sociale", rifiuta energicamente la tesi socialista
dell'abolizione della proprietà privata. Considerando la proprietà come un
diritto naturale, cioè come un diritto senza il quale l'uomo non può
sviluppare appieno la propria personalità, la dottrina del cristianesimo
sociale aspira, anziché alla sua soppressione, alla sua più ampia diffusione,
in modo che possano diventare proprietari dei mezzi di produzione, attraverso
forme che vanno dalla frantumazione della grande proprietà agricola alla
partecipazione azionaria degli operai alle grandi imprese, il maggior numero
di individui. Di fronte all'obiezione messa innanzi dai socialisti, che la
proprietà individuale è il maggior fomite di discordia, essa risponde
distinguendo il diritto di proprietà, che è privato, dall'uso
di essa, che è sociale; e da questa distinzione trae la conseguenza che, se
non si può negare all'individuo di avere diritti individuali sui beni
economici, gli si può precludere, non solo con il richiamo al precetto
evangelico della carità, ma ricorrendo alla regolamentazione coattiva dello
Stato, un uso di questi beni che sia nocivo alla società e contrario al bene
comune. Con la dottrina del cristianesimo sociale, la proprietà individuale
viene riconosciuta, anzi estesa nella sua titolarità, seppur temperata nel
suo esercizio.
Anche di
fronte al problema dello Stato, il cristianesimo sociale rifugge dagli
estremi della concezione negativa dei liberali e di quella considerata troppo
positiva dei socialisti. Sin dall'inizio ammise, contro il liberalismo, che
lo Stato doveva intervenire nella vita economica soprattutto per proteggere
le classi più povere; sostenne contro lo Stato agnostico lo Stato dirigista, e
fu fautore e promotore di legislazione sociale. Ma attenuò lo statalismo che
giudicava eccessivo dei socialisti, sostenendo la necessità che si formassero
fra l'individuo e lo Stato libere associazioni a scopo economico e sociale,
le quali permettessero, da un lato, il superamento dell'individualismo
l'attuazione dell'idea solidaristica, ed evitassero, dall'altro, il pericolo
di cadere nel livellamento collettivistico. Accarezzò l'idea che, favorendo
lo sviluppo di associazioni intermedie, si venissero costituendo associazioni
di mestiere, composte sia da lavoratori che da imprenditori, che furono dette
corporazioni, dalle quali ci si aspettava che la lotta di
classe - che il liberalismo non voleva soffocata, perché causa di progresso
economico e di elevazione dei ceti popolari, ma giuridicamente regolata, e il
socialismo voleva eliminata alle radici mirando ad una società senza classi -
fosse conciliata in una mutua comprensione dei rappresentanti
del lavoro e del capitale, so Link alle risorse in rete sulla
riforma della costituzione
06/03/2005 10:42
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Carlo M.
4.
ADOTTIAMO LA COSTITUZIONE
- Chiediamo allora a tutti i cittadini che
condividono i nostri sentimenti di fare un atto concreto per difendere la
Carta Costituzionale, un bene che appartiene a tutti “senza distinzione di
sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di
condizioni personali e sociali”, come la stessa Costituzione recita.
5.
Giovani per la costituzione.it
- Che cos’è “Giovani per la Costituzione”?
E’ una realtà
(ed è già un fatto!) associativa fondata e promossa da studentesse e
studenti, in larga parte di facoltà giuridiche, che intendono diffondere e
difendere i valori, i principi, ed i contenuti della Costituzione
Repubblicana figlia della lotta di Resistenza e di Liberazione. Ma perché dei giovani dovrebbero interessarsi di un cosa
“vecchia”, perché dovrebbero impegnare del proprio tempo per un pezzo di
carta pensato e scritto in altri tempi da donne e da uomini che avevano
esigenze diverse da quelle presenti? ll nostro impegno è
nato alla luce di una serie di considerazioni semplici: la nostra
Costituzione è giovane sia sotto il profilo sostanziale che anagraficamente
parlando. Non è un pezzo di carta qualunque ma reca in sé i motivi e le
ragioni del nostro essere cittadini italiani ed esprime valori ed idee che
non hanno tempo, che valgono tanto più oggi, anche se scritte sessant’anni
fa. Conoscere la Costituzione è quasi un dovere, ma, più che altro, è il
primo passo per appassionarsene, per scoprire che tutti noi siamo cittadini,
studenti e studentesse, lavoratori e lavoratrici, genitori e figli perché la
Costituzione di questo parla e ne parla nel modo più alto, delineando spazi
di libertà e democrazia affinché la nostra personalità sia libera di formarsi
ed esprimersi............continua
ttoposti alla stessa legge della morale
cristiana.
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Salviamo la Costituzione |
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